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La persistenza della memoria, ovvero del ricordare

Orologi molli che sembrano sul punto di liquefarsi al sole in un paesaggio onirico deserto e spoglio. E’ questa La persistenza della memoria, uno dei quadri più celebri di Salvador Dalì dipinto nel 1931. E’ lo stesso pittore a raccontare in un sapido aneddoto la scintilla creativa che ha occasionato l’opera. Quel giorno avrebbe dovuto andare al cinema con la moglie Gala e alcuni amici, ma poi ci ripensa e resta a casa.

A cena ha mangiato un camembert troppo maturo che forse gli è rimasto sullo stomaco, la laboriosa digestione di questo formaggio francese diviene oggetto di una profonda riflessione filosofica da parte di Dalì affascinato sia dalle teorie dell’inconscio elaborate da Freud che dalla filosofia di Bergson. Il pittore catalano sta lavorando a un dipinto su Port Lligat. Prima di spegnere la luce arriva l’spirazione. Così racconta: “Vidi due orologi molli uno dei quali pendeva miserevolmente dal ramo dell’ulivo. Nonostante il mal di testa fosse ora tanto intenso da tormentarmi, preparai febbrilmente la tavolozza e mi misi al lavoro“.

Quando due ore dopo la moglie Gala torna dal cinema il quadro era terminato. Questi orologi che si fondono nello spazio sono la rappresentazione più emblematica, dal punto di vista visivo, del netto cambiamento del paradigma scientifico circa la concezione del tempo nel Novecento. Uno spazio tempo non più assoluti e universali come nella fisica classica di Newton, bensì curvi come dimostrato da Einstein con la teoria della relatività generale.

Il dipinto ci invita in particolare a riflettere sulla dimensione del tempo e il suo rapporto con la memoria. Il pittore catalano ci mostra il paesaggio di Port Lligat durante l’alba, ovvero il tratto di costa spagnola dove l’artista scelse di abitare con la compagna Gala dal 1930. Questi tre orologi deformati dalla memoria possono rappresentare l’aspetto psicologico del tempo che è diverso per ciascuno di noi, difatti ogni orologio segna ore differenti. Il tempo lineare misurabile dagli orologi che lo scandiscono convenzionalmente in secondi minuti ore, non può trovare rispondenza nel tempo della coscienza che frange il continuum della realtà nelle intermittenze della percezione soggettiva e individuale e nelle figurazioni oniriche dell’inconscio.

Un evento nella nostra coscienza può trovare una eco smisurata nel dilatarsi all’infinito nella memoria. In questo paesaggio misterioso sulla sinistra abbiamo un basamento quadrato su cui è posto un orologio azzurro che pare stia per sciogliersi al sole e vi è un ulivo secco a cui è appeso un altro orologio sempre di colore azzurro. Ve ne è poi un altro ancora al centro del dipinto posto su una strana creatura antropomorfa che potrebbe essere lo stesso ritratto di Dalì. Questi orologi sono deformati nel sogno creato dall’inconscio dell’artista proprio come sembrerebbe suggerire la strana creatura dalle lunghe ciglia che giace addormentata. Il quarto orologio è intatto, ma vi brulicano alcune formiche nere che sembrano indicare l’annullamento del tempo cronologico in quanto comunicano un senso di corruzione e disfacimento, elementi ricorrenti nell’opera di Dalì. Dinanzi a questa immagine surreale ci coglie una vertigine, una sensazione di smarrimento e spaesamento.

Dove si può vedere il quadro?

La persistenza della memoria è conservato al Museum of Modern Art di New York. Il museo ha ricevuto il dipinto da un donatore anonimo dopo che era stato esposto in un primo momento nella Galleria Jullien Levy nel 1932. A Figueres, invece, la città catalana dove l’artista spagnolo è nato nel 1904 e morto nel 1989, vi è il Teatro-Museo Dalí, dove è possibile ammirare innumerevoli opere dell’artista catalano.

Camerbert: il formaggio che ha ispirato Dalì

Il camerbert che suggerisce a Dalì il celebre quadro, è un formaggio francese a pasta molle che si ottiene da latte di vacca crudo o pastorizzato. Rientra certamente tra i formaggi più rinomati della produzione casearia francese. E’ un formaggio cremoso che assomiglia al burro ed è leggermente salato. Sulla sua crosta sottile vi prolifica una muffa bianca. A partire dal 1996 i Camerbert di Normandia è riconosciuto con l’Appellazione di origine protetta (AOP). Lo si può gustare col pane oppure con composte di agrumi o frutti di bosco, ma anche al gratin nel pangrattato oppure ancora fritto o sciolto. Insomma c’è n’è per tutti i gusti. E’ facilmente reperibile nei supermercati. L’abbinamento ideale ideale è con i vini di Borgogna.

Memoria e ricordo

La memoria è la radice della nostra identità più profonda. Nella letteratura classica esiste una Musa della Memoria, chiamata Mnemosyne, che personifica la memoria e il ricordare in genere. E’ madre delle nove muse, perché la memoria, nella varietà delle espressioni artistiche in cui può declinarsi, può vincere la morte eternando la bellezza nel tempo. Ricordo invece deriva da “re-cordor” e significa “richiamare al cuore”, per cui riguarda la memoria privata legata agli eventi della propria vita, quindi evoca una dimensione più intima, privata, interiore.

Da memoria deriva anche l’aggettivo memoriale che ha come fine il ricordare le vicende relative alla vita di un personaggio illustre. Memorabile invece è quanto si stima degno di essere ricordato riguardo a fatti accadimenti relativi a una impresa che è destinata a durare nel tempo. Col termine memorabilia si intendono invece cimeli relativi a un evento, un film, un personaggio noto. Può trattarsi di oggetti quali foto autografate, oggi lo sono anche i selfie, appunti inediti di scrittori, dischi, e anche auto e moto. Per mirabilia si intendono invece le cose meravigliose e straordinarie. La si usa soprattutto in senso scherzoso.

Funes o della memoria: ricordare tutto è morire

Borges in un suo racconto, Funes o della memoria, parla di un ragazzo paralizzato a seguito di una caduta da cavallo. La storia è ambientata in Uruguay a fine Ottocento. Questo giovane, Ireneo Funes, è in grado di cogliere con la sua memoria fotografica prodigiosa ogni dettaglio, anche il più minuto, che ricade sotto questo suo sguardo di Argo. Così parla Ireneo Funes nell’omonimo racconto dello scrittore argentino.  “I miei sogni, sono come la vostra veglia“. E anche: “La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti. Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva in cielo.

Queste cose che mi disse, né allora né mai le posi in dubbio. Non c’era a quel tempo cinematografo né fonografo; è tuttavia inverosimile e quasi incredibile che nessuno facesse un esperimento con Funes“. I ricordi talvolta possono essere dolorosi: “Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso […]Gli era molto difficile distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano”. Ricordare tutto è operazione da macchina computistica. Una memoria senza intelligenza che ricorda ogni più sparuto accidente di quel che accade non è un prodigio, ma una macchina stupida perché non sa sbrogliare i nodi gordiani del molteplice col rasoio di Occam, secondo convenienti rapporti di significazione. Solo un processo selettivo che opera uno scarto semantico tra ciò che ha significato e ciò che non lo ha, può dare senso alla realtà, che altrimenti ci sommergerebbe in una babilonia di dettagli, come accade per il povero Funes.

Leopardi: “Silvia rimembri ancor…”

Anche in Leopardi, il poeta della rimembranza, è ben presente il tema della memoria, delle ricordanze. Molti luoghi dell’opera del poeta recanatese sono percorsi da riflessioni sulla memoria e sui ricordi. In particolare alla “rimembranza” del proprio passato Leopardi dedicò alcuni Canti, tra i più noti: A Silvia (“Silvia, rimembri ancora …”) Alla luna (“O graziosa luna, io mi rammento…”), e Le ricordanze. Anche nello zibaldone ricorrono molte riflessioni su questo tema, ve ne proponiamo qualcuna:”Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono, un racconto, una descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito (..). Da grandi, (…) proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all’infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, (…); vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze.” (Zibaldone 514-516, 16 gennaio 1821)

La rimembranza nel poeta recanatese è un ricordo rivissuto, che gli consente di vivificare il passato le cui risonanze riecheggiano ancora ben vive e presenti.

Il passato, nell’ottica deformata del ricordo, è sempre dolce da ricordare. Le illusioni del vivere giovanile, le speranze e i sogni di quel tempo, quando siamo ancora vaghi del nostro avvenire, ci innamorano della vita. Quel che deve ancora avvenire ci sembra presago di meraviglie al tempo della giovinezza e la sua attesa ci è dolce e cara più ancora che il momento in cui troverà il suo compimento. Nel ricordo i contorni sfumano nell’indefinito perché anche il ricordo è una sfumatura, ricostruzione, ricomposizione fittizia, tenue traccia, trama sfilacciata arbitraria e parziale di quel che un tempo fu, ma proprio a motivo di ciò ci è caro ricordare. Il vago e l’indefinito accompagnano il ridestarsi della poesia, il presente invece è impoetico perché nel suo essere definito non ci permette di guardare oltre. Certo Leopardi nel suo lucido pessimismo è ben consapevole che anche la poesia è una illusione, ma cosa rimane all’uomo se non le illusioni?

Montale, non recidere forbice quel volto

Non recidere forbice quel volto è una poesia della sua seconda raccolta, Le occasioni, del 1939. La lirica fu composta nel 1937.

Non recidere, forbice, quel volto,

solo nella memoria che si sfolla,

non far del grande suo viso in ascolto

la mia nebbia di sempre. Un freddo cala… Duro il colpo svetta.

E l’acacia ferita da sé scrolla

il guscio di cicala

nella prima belletta di Novembre“.

Montale implora il tempo di non fargli svanire dalla memoria il caro ricordo di una donna amata. La forbice del potatore diviene dunque figura del tempo che sforbicia metaforicamente, col gesto che gli è di mestiere, il ricordo di un volto facendolo scivolare nell’oblio e dunque la preghiera del poeta è rimasta inascoltata. Invano la memoria prova a resistere al tempo che tutto rovina nel suo dilavare senza posa. Risalta in questa raccolta il ruolo salvifico delle figure femminili. La donna in particolare a cui fa riferimento Montale è Clizia, ovvero Irma Blandeis, una giovane americana conosciuta a Firenze nel 1933 che a causa delle leggi razziali fu costretta  a tornare nel suo paese.

Proust: il profumo della memoria

In certe mattine ad evocare il passato, il gusto saporoso dei giorni perduti, può essere un profumo. Una memoria olfattiva può innescare in maniera potente il ricordo. D’altronde l’olfatto è il senso che più ci fa viaggiare con l’immaginazione. E’ un ricordo che si desta grazie ai sensi. Così scrive Proust “Dalla parte di Swann” nel primo volume de “Alla ricerca del tempo perduto”: “Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati madeleine, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo.

E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto di madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa”. Così conclude Proust: “All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio“.

Haec olim meninisse juvabit” (Virgilio, Eneide, I, 203).

A conclusione di questa breve rassegna sul tema della memoria e il ricordo, ci congediamo dal benevolo lettore con uno dei più bei versi che ci ha consegnato la letteratura latina, in quel capolavoro che è l’Eneide di Virgilio. “Forse anche queste cose un giorno ci piacerà ricordare“. Così Enea tentava di esortare i compagni ad affrontare l’avversità della sorte dopo che una tempesta li aveva sballottati sulle spiagge libiche. Il viaggio infine conduce circolarmente all’origine. Forse un giorno volgendoci a ritroso, come capitani di lungo corso scampati a tempeste e naufragi, ci gioverà ricordare quel che è stato. Il ricordo ne mitigherà le asprezze.

Marco Troisi

Redazione
Redazione
Giuseppe D’Alto: classe 1972, giornalista professionista dall’ottobre 2001. Ha iniziato, spinto dalla passione per lo sport, la gavetta con il quotidiano Cronache del Mezzogiorno dal 1995 e per oltre 20 anni è stato uno dei punti di riferimento del quotidiano salernitano che ha lasciato nel 2016.Nel mezzo tante collaborazioni con quotidiani e periodici nazionali e locali. Oltre il calcio e gli altri sport, ha seguito per diversi anni la cronaca giudiziaria e quella locale non disdegnando le vicende di spettacolo e tv.

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