Londra, due poliziotti accoltellati nella Capitale invasa per l’omaggio alla Regina Elisabetta
16 Settembre 2022 - 10:06
Lavoro digitale o tradizionale? Ecco le differenze da considerare
16 Settembre 2022 - 16:43
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Anche quando annaffiamo una piantina di gerani, semplice e comune gesto, al balcone delle nostre città lambito dallo smog, senza saperlo, coltiviamo in miniatura perpetuandola, la memoria del paradiso perduto, di quel primo giardino di cui si è tanto favoleggiato.

I giardini richiamano la nostalgia di quel giardino irripetibile e immemoriale perduto per sempre. Il giardino, in tutte le sue espressioni, a differenza del bosco, è frutto del lavoro diligente, dell’intendimento operoso dell’uomo, che se ne prenda cura, che doma la natura. Anche quando pensiamo all’altro mondo, all’al di là, ce lo raffiguriamo con l’aspetto ameno di un giardino. Il giardino è quindi l’immagine concreta visibile del Paradiso. La parola giardino deriva da una arcaica radice indoeuropea (ghorto) che indica un’idea di spazio chiuso, di recinto. Giardino è parola dall’etimologia persiana, nell’antico persiano paridaeza significava muro di cinta, il termine in greco è paradeisos che passa alla voce latina paradisus.

Senofonte è il primo a utilizzare in greco il termine paradeisos in riferimento ai giardini persiani. Pertanto l’etimologia della parola evidenzia che i giardini fin dal principio sono luoghi delimitati, separati dalla natura incolta. Non possiamo dunque che partire dal giardino più noto, ovvero quello perduto. 

Il giardino biblico di Eden, il giardino delle delizie

(Genesi 2, 8-10, 15-16) “Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden, ad Oriente, e quivi pose l’uomo, che aveva formato; e il Signore Iddio fece germogliare dal suolo ogni specie di alberi piacevoli di aspetto e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino, e l’albero della conoscenza del bene e del male. In Eden nasceva un fiume che irrigava tutto il giardino e quindi si divideva in quattro capi […]

Il Signore Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino dell’Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse, e dette all’uomo quest’ordine: “Tu puoi mangiare liberamente di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, poiché se tu mangerai, di certo morirai”.

 (Dante, Purgatorio XXVIII 1-42, 139-145) 

Dante nel suo viaggio ultraterreno, una volta giunto in cima alla montagna del Purgatorio raggiunge l’Eden o paradiso terrestre. In un giardino che è un locus amoenus incontra Matelda che rappresenta l’umanità prima del peccato originale. Questo giardino del paradiso si contrappone quindi alla selva selvaggia “aspra e forte” in cui si era smarrito all’inizio del poema. 

Vago già di cercar dentro e dintorno

la divina foresta spessa e viva,

ch’a li occhi temperava il novo giorno, 

sanza più aspettar, lasciai la riva,

prendendo la campagna lento lento

su per lo suol che d’ogne parte auliva. 

Un’aura dolce, sanza mutamento

avere in sé, mi feria per la fronte

non di più colpo che soave vento;per cui le fronde, tremolando, pronte

tutte quante piegavano a la parte

u’ la prim’ombra gitta il santo monte; 

non però dal loro esser dritto sparte

tanto, che li augelletti per le cime

lasciasser d’operare ogne lor arte; 

ma con piena letizia l’ore prime,

cantando, ricevieno intra le foglie,

che tenevan bordone a le sue rime, 

tal qual di ramo in ramo si raccoglie

per la pineta in su ‘l lito di Chiassi,

quand’Eolo Scirocco fuor discioglie. 

Già m’avean trasportato i lenti passi

dentro a la selva antica tanto, ch’io

non potea rivedere ond’io mi ‘ntrassi; 

ed ecco più andar mi tolse un rio,

che ‘nver’ sinistra con sue picciole onde

piegava l’erba che ‘n sua ripa uscio. 

Tutte l’acque che son di qua più monde,

parrieno avere in sé mistura alcuna,

verso di quella, che nulla nasconde, 

avvegna che si mova bruna bruna

sotto l’ombra perpetua, che mai

raggiar non lascia sole ivi né luna. 

Coi pie ristretti e con li occhi passai

di là dal fiumicello, per mirare

la gran variazion di freschi mai; 

e là m’apparve, sì com’elli appare

subitamente cosa che disvia

per maraviglia tutto altro pensare, 

una donna soletta che si gia

cantando e scegliendo fior da fiore

ond’era pinta tutta la sua via.

Quelli ch’anticamente poetaro 

l’età de l’oro e suo stato felice,

forse in Parnaso esto loco sognaro.

Qui fu innocente l’umana radice;

qui primavera sempre e ogne frutto;

nettare è questo di che ciascun dice. 

Il giardino di Armida Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, XVI 9-19 

Goffredo, comandante delle milizie cristiane manda a cercare Rinaldo la cui presenza è indispensabile per la buona riuscita dell’impresa. Rinaldo è prigioniero della maga Armida in un giardino incantato. E’ questo un giardino seduttivo e ingannevole che invischia Rinaldo in una ragnatela di apparenze. 

Poi che lasciar gli aviluppati calli

in lieto aspetto il bel giardin s’aperse:

acque stagnanti, mobili cristalli,

fior vari e varie piante, erbe diverse,

apriche collinette, ombrose valli,

selve e spelonche in una vista offerse:

e quel che ‘l bello e ‘l caro accresce a l’opre,

l’arte, che tutto fa, nulla si scopreStimi (si misto il culto è co ‘l negletto)

sol naturali e gli ornamenti e i siti.

Di natura arte par, che per diletto

l’imitatrice sua scherzando imiti .

L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto,

l’aura che rende gli alberi fioriti:

co’ fiori eterni eterno il frutto dura,

e mentre spunta l’un, l’altro matura.

Nel tronco istesso e tra l’istessa foglia

sovra il nascente fico invecchia il fico;

pendono a un ramo, un con dorata spoglia,

l’altro con verde, il novo e ‘l pomo antico;

lussureggiante serpe alto e germoglia

la torta vite ov’è più l’orto aprico:

qui l’uva ha in fiori acerba, e qui d’or l’have

e di piropo e già di nettar grave.

Vezzosi augelli infra le verdi fronde

temprano a prova lascivette note:

mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde

garrir che variamente ella percote.

Quando taccion gli augelli alto risponde,

quando cantan gli augei più lieve scote:

sia caso od arte, or accompagna, ed ora

alterna i versi lor la musica óra Vola fra gli altri un che le piume ha sparte 

di color vari ed ha purpureo il rostro,

e lingua snoda in guisa larga, e parte 

la voce sì ch’assembra il sermon nostro.

Questi ivi allor continovò  con arte

tanta il parlar che fu mirabil mostro.

Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti,

e fermaro i susurri in aria i venti,

Deh mira — egli cantò — spuntar la rosa 

dal verde suo modesta e verginella,

che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa,

quanto si mostra men, tanto è più bella.

Ecco poi nudo il sen già baldanzosa

dispiega; ecco poi langue e non par quella,

quella non par che desiata inanti

fu da mille donzelle e mille amanti.

Così trapassa al trapassar d’un giorno 

de la vita mortale il fiore e ‘l verde;

né perché faccia indietro april ritorno,

si rinfiora ella mai, né si rinverde.

Cogliam la rosa in su ‘l mattino adorno

di questo dì, che tosto il seren perdecogliam d’amor la rosa: amiamo or quando

esser si puote riamato amando.

Tacque, e concorde de gli augelli il coro,

quasi approvando, il canto indi ripiglia.

Raddoppian le colombe i baci loro,

ogni animal d’amar si riconsiglia;

par che la dura quercia e ‘l casto alloro

e tutta la frondosa ampia famiglia,

par che la terra e l’acqua e formi e spiri

dolcissimi d’amor sensi e sospiri.

Fra melodia si tenera, fra tante 

vaghezze allettatrici e lusinghiere,

va quella coppia , e rigida e costante

se stessa indura a i vezzi del piacere.

Ecco tra fronde e fronde il guardo inante

penetra e vede, o pargli di vedere,

vede pur certo il vago e la diletta,

ch’egli è in grembo a la donna, essa a l’erbetta,

Ella dinanzi al petto ha il vel diviso, 

e ‘l crin sparge incomposto al vento estivo;

langue per vezzo , e ‘l suo infiammato viso

fan biancheggiando i bei sudor più vivo;

qual raggio in onda, le scintilla un risone gli umidi occhi tremulo e lascivo.

Sovra lui pende   ed ei nel grembo molle

le posa il capo, e ‘l volto al volto attolle,

e i famelici sguardi avidamente 

in lei pascendo si consuma e strugge.

S’inchina, e i dolci baci ella sovente

liba or da gli occhi e da le labra or sugge,

ed in quel punto ei sospirar si sente

profondo sì che pensi: “Or l’alma fugge

e ‘n lei trapassa peregrina “. Ascosi

mirano i due guerrier gli atti amorosi. 

I giardini pensili 

Secondo la leggenda furono un dono del re babilonese Nabucodonosor nel 600 a.C. alla concubina persiana Amiti che soffriva di nostalgia per i prati dei monti del suo paese natale. I giardini che potevano arrivare anche a 40 metri di altezza sul suolo si sviluppavano su terrazze sovrapposte a forma di piramide tronca. Grazie a un ingegnoso sistema di irrigazione, l’acqua dell’Eufrate giungeva fino all’ultima terrazza e poi veniva fatta correre di giardino in giardino in modo da mantenere il suolo umido. I giardini pensili di Babilonia si inseriscono in una tradizione costruttiva più ampia, nel senso che era consuetudine all’epoca utilizzare del terriccio sui tetti per fare delle terrazze coltivate utili anche per l’isolamento termico.

 Il giardino nella mitologia: il giardino delle Esperidi 

Conosciuto anche come il frutteto di Hera, nel meraviglioso giardino vi era un albero dai frutti d’oro che donavano l’immortalità. Questo mitico giardino famoso per le mele d’oro era custodito da un drago dalle cento teste che non dormiva mai, a cui darà morte Eracle in una delle sue celebri fatiche. 

Il giardino nell’Odissea: Ulisse alla corte di Re Alcinoo 

Nel corso delle sue peregrinazioni per il ritorno ad Itaca, Ulisse arriverà all’Isola di Escheria dove farà la conoscenza di Alcinoo, re dei Feaci e del suo giardino:

Fuori, poi, dal cortile, era un grande orto, presso le porte,

di quattro iugeri corre tutt’intorno una siepe.

Alti alberi là dentro, in pieno rigoglio,

peri e granati e meli dai frutti lucenti,

e fichi dolci e floridi ulivi; 

mai il loro frutto vien meno o finisce, inverno o estate per tutto l’anno: ma sempre

il soffio di Zeffiro altri fa nascere e altri matura.

Pera su pera appassisce, mela su mela,

e presso il grappolo il grappolo, e il fico sul fico.

Là anche una vigna feconda era piantata, ed una parte di questa in aprico terreno matura al sole; d’un’altra vendemmiano i grappoli

e altri ne pigiano; ma accanto ecco grappoli verdi,

che gettano il fiore, altri appena maturano.

Più in là lungo l’estremo filare, aiuole ordinate 

d’ogni ortaggio verdeggiano, tutto l’anno ridenti.

E due fonti vi sono: una per tutto il giardino

si spande; l’altra all’opposto corre fin sotto il cortile,

fino all’alto palazzo: qui viene per acqua la gente.

Questi mirabili doni dei numi erano in casa d’Alcino. 

Sempre nell’Odissea, Ulisse conoscerà anche il giardino della ninfa Calipso che governa l’isola di Ogigia. 

Quando arrivò nell’isola lontana, 

allora dal livido mare balzato sul lido,

andava, finché fu alla grande spelonca, dove la ninfa

trecce belle abitava: e la trovò ch’era in casa.

Gran fuoco nel focolare bruciava e lontano un odore di cedro e di fissile tuia odorava per l’isola, ardenti;

lei dentro, cantando con bella voce

e percorrendo il telaio con spola d’oro, tesseva.

Un bosco intorno alla grotta cresceva, lussureggiante: ontano, pioppo e cipresso odoroso.

Qui uccelli dall’ampie ali facevano il nido, 

ghiandaie, sparvieri, cornacchie che gracchiano a lingua distesa, le cornacchie marine, cui piace la vita del mare.

Si distendeva intorno alla grotta profonda

una vite domestica, florida, feconda di grappoli.

Quattro polle sgorgano in fila, di limpida acqua, 

una vicina all’altra, ma in parti opposte volgendosi.

Intorno molli prati di viola e di sedano

erano in fiore; a venir qui anche un nume immortale doveva incantarsi guardando, e goderne nel cuore. 

Il giardino dei filosofi: il giardino di Epicuro 

Epicuro acquista una casa a Melite, in prossimità del porto dove fonda anche la sua scuola. L’abitazione si compone di un orto e di un giardino. Il giardino di Epicuro è stata la terza scuola nel mondo greco dopo l’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele, però a differenza delle altre due, a livello giuridico era una proprietà privata. In questo giardino, oltre ai frutti propri della terra, si coltivano anche le più delicate infiorescenze dell’animo umano. Quella di Epicuro può definirsi una comunità di amici che si dedica al sapere, che vive assieme filosofando. La scuola filosofica avrà oltre sette secoli di longevità. 

Il giardino medievale: l’hortus conclusus 

La simmetria, quale espressione di proporzione dello spazio, eredità dei romani, è caratteristica anche del mondo conventuale. Il chiostro si trova in mezzo all’edificio e al centro dello stesso talvolta c’è una fontana, a ricordo dei 4 fiumi che bagnano il Paradiso, oppure un albero che evidenzia l’allusione all’albero biblico della conoscenza del Bene e del Male. Il chiostro che racchiude il giardino diventa quindi un luogo privilegiato non solo per la preghiera, ma anche per la meditazione e la deambulatio. Tutta la vita monastica ruota attorno al chiostro e ai suoi porticati. Il chiostro generalmente presenta una struttura quadrangolare e i sentieri che lo attraversano disegnano una croce che lo divide in 4 settori.

Il giardino è quindi una sorta di paradiso, luogo di raccoglimento spirituale e meditazione. Il giardino si esprime secondo forme geometriche in quanto valorizza l’aspirazione all’ordine e alla ricerca di armonia. Il giardino rinascimentale La razionalità è la caratteristica manifesta nel giardino rinascimentale in quanto l’uomo, grazie al fatto di essere un animale razionale, secondo la celebre definizione di Aristotele, è capace di governare la natura e quindi di stabilire un ordine. La ragione domina la natura, l’uomo è al centro dell’universo. La culla del giardino rinascimentale è Firenze con i suoi giardini di Boboli. Il giardino rinascimentale si integra nel paesaggio mediante scalinate e terrazzamenti. Il giardino nel rinascimento ha un ordine geometrico e una disposizione reticolare. L’abbandono della coltivazione delle piante da frutto risponde alla nuova concezione secondo cui le coltivazioni non hanno più un fine utilitaristico bensì soddisfano esigenze estetiche e spirituali.

Il giardino, sulla scorta dell’estetica neoplatonica nell’Accademia di Careggi fondata da Marsilio Ficino che si rifà al Fedone platonico, esprime la concezione secondo cui l’uomo attraverso i sensi più elevati, ovvero l’udito la vista e la gentilezza può ascendere al sommo bene tramite la bellezza contemplativa, è quindi un cammino di iniziazione che ha come fine il raggiungimento del Bene, la cui espressione massima è l’unione spirituale con Dio. Nel giardino rinascimentale gli arbusti e le siepi vengono potati rigorosamente in forme geometriche. Stessa forma per labirinti, tunnel e statue. L’acqua assurge a protagonista del giardino rinascimentale: in questo senso si assiste alla presenza di grandi piscine rettangolari, laghetti artificiali, fontane, piscine in pietra, corsi d’acqua, organi d’acqua, grotte, che hanno come fine il divertimento dei proprietari e ospiti. 

Il giardino barocco 

Al cospetto del giardino barocco, il visitatore è un vero e proprio spettatore incantato dallo spettacolo che gli si pone dinanzi. Il giardino barocco che si afferma nel 600′ ha come fine un effetto scenografico: stupire, sbalordire, far spalancare la bocca del visitatore per cotanta meraviglia. Il giardino barocco si articola secondo un asse maggiore e altri minori: davanti al palazzo abbiamo il “parterre”, ovvero una superficie a terrazze decorate. Le aiuole sono bordate da siepi ornamentali e sono potate secondo i canoni dell’arte topiaria.

Con gradualità le aiuole di diradano per dare spazio ai tappeti erbosi. Le fontane e le vasche producono mirabili giochi d’acqua che incantano lo spettatore. Dai boschetti delimitati da siepi si diradano dei sentieri che conducono ad aree boschive più vaste. In questi luoghi i nobili si dedicano alla caccia. Nel giardino, oltre alle piante esotiche, il padrone della villa può creare anche dei serragli al cui interno ospita animali esotici quali leoni, elefanti. Si tratta di un giardino che richiede ingenti risorse per la sua manutenzione e la cura, per cui al giorno d’oggi è quasi del tutto scomparso. 

Il giardino del Decamerone 

Il Decamerone stampato nel 1350, narra la storia di sette giovani donne e tre uomini che nel 1348, anno in cui imperversa la peste, abbandonano la città per trasferirsi in una villa dove trascorrono due settimane in lieti conversari, danze e passeggiate. Nel Decamerone questi 10 giovani protagonisti abbandonano le loro case per partire per un viaggio ed il viaggio è sempre metafora di cambiamento e trasformazione interiore. Questi giovani fuggono dalla corruzione del male e della morte che assedia la città per trovare nel giardino una sorta di sospensione del tempo. Questo giardino opera dell’uomo consente di sfuggire alla peste che comporta un totale disordine della società dove le norme morali e igieniche sono sconvolte.

Per sfuggire da questo disordine si crea una nuova regola: infatti i dieci giovani seguono un ordine, raccontano dieci novelle per dieci giorni e ognuno dei dieci protagonisti è reggente della giornata. Le novelle del Boccaccio ripropongono quindi l’ordine che c’era prima della peste. Il palazzo dentro il giardino è una roccaforte contro la peste. La storia si ripete sebbene mai allo stesso modo. In questi due anni di Covid abbiamo fronteggiato, sia pure con tutte le debite differenze del caso, l’epidemia di peste con cui faceva i conti l’uomo del Medioevo. Il Covid nello sbriciolare le nostre certezze, solo in apparenza granitiche, ci ha mostrato quanto è fragile e preziosa la vita.

Il giardino doloroso di Leopardi: “Tutto è male” 

In questa metaforica descrizione del giardino si condensa un estratto del pessimismo del poeta  recanatese, secondo cui il male intride ogni fibra dell’essere, contagia l’universo in tutta la sua profondità e vastità. Lo spettacolo di apparente rigogliosa bellezza che ci regala un giardino, in realtà cela uno scenario di morte e desolazione a suggerire la soluzione del dilemma amletico a favore del non essere piuttosto che dell’essere. 

Queste le riflessioni del genio recanatese tratte dallo Zibaldone: “Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento.

Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è róso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido troppo secco.

L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro”.(Bologna, 19 aprile 1826).

“Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere”. (Bologna, 22 aprile 1826).

Il Giardino dei Finzi Contini: il fondo ineludibile della memoria 

Il romanzo di Giorgio Bassani è stato pubblicato nel 1962. I Finzi Contini, la famiglia ebrea dell’alta borghesia di Ferrara, abita in un palazzo con un antico giardino circondato da un alto mura di cinta. Il protagonista, nel visitare le tombe etrusche di Cerveteri, con la memoria corre alla famiglia dei Finzi Contini sepolta nel cimitero di Ferrara. Tranne Alberto che muore d’un male incurabile nel 1943, Micòl, i genitori e la nonna verranno deportate nei campi di concentramento nazisti dove troveranno la morte.

Nel romanzo di Bassani il giardino è una sorta di rifugio contro la barbarie delle leggi razziali e l’abbrutimento del mondo, uno spazio umanizzato in cui può avere ancora corso l’umanità. Purtroppo non basterà a salvare la famiglia dei Finzi Contini e tanti altri che troveranno la morte nei campi di concentramento. 

Gli unici paradisi non vietati all’uomo sono i paradisi perduti (Borges) 

Possiamo chiudere il nostro excursus sul giardino con un proverbio persiano, da cui si può dire che sia cominciata la storia del giardino: “Chiunque crei un giardino diventa un alleato della luce, perché nessun giardino è mai sorto dalle tenebre”.

Marco Troisi

Redazione
Redazione
Giuseppe D’Alto: classe 1972, giornalista professionista dall’ottobre 2001. Ha iniziato, spinto dalla passione per lo sport, la gavetta con il quotidiano Cronache del Mezzogiorno dal 1995 e per oltre 20 anni è stato uno dei punti di riferimento del quotidiano salernitano che ha lasciato nel 2016.Nel mezzo tante collaborazioni con quotidiani e periodici nazionali e locali. Oltre il calcio e gli altri sport, ha seguito per diversi anni la cronaca giudiziaria e quella locale non disdegnando le vicende di spettacolo e tv.

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