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L’inciviltà del rumore: alla ricerca del silenzio perduto

Il rumore è il contrassegno dell’epoca moderna. Nelle male bolge delle città, frastornati dal rombo dei motori delle auto, dal sorvolo degli aerei, viviamo letteralmente immersi nella fluidità continua e pervasiva del rumore. La nostra civiltà produce incessantemente rumore. Vi è poi il rumore prodotto dalla tecnologia, il rumore digitale, che impatta soprattutto a livello mentale più che acustico. 

Parola e silenzio nella comunicazione 

Per una buona comunicazione sono necessari tanto la parola quanto il saper tacere, pertanto non si tratta di termini contrapposti. Si può dire anzi che la parola nasce dal silenzio, ne è preceduta. L’ascolto precede la parola. Il silenzio non può quindi definirsi come assenza di qualunque suono, che in quanto tale sarebbe impercepibile, piuttosto, come ci può accadere in alcuni momenti particolarmente significativi della nostra vita, è la nostra voce interiore. Il silenzio è per lo scrittore la pagina bianca che precede la scrittura. Il silenzio è la pausa fondamentale nella comunicazione, come lo è la distanza tra una parola e l’altra sulla pagina scritta. Pensiamo a una conversazione. Tizio e Caio si incontrano, si salutano e cominciano a conversare. La parola pronunciata dall’uno grazie all’ascolto si trasforma nel significato per l’interlocutore a cui è diretta e viceversa. Alla fine della conversazione, se il dialogo è stato proficuo si propaga come una eco interiore per entrambi. 

Esistono due forme di silenzio. Nella lingua latina è molto evidente questa differenza: silere indica una sorta di silenzio originario della natura, delle cose, che ci invita alla contemplazione. Ad esempio possiamo rimanere in silenzio ammirando la bellezza di un paesaggio. Tacere invece assume ben altra connotazione in quanto è un rinunciare di proposito alla parola, che può assimilarsi allo zittire e al zittirsi. Il dialogo è punteggiato da una continua alternanza tra ascolto e parola: è questo il ritmo dello scambio che lo contraddistingue. Senza la presenza del silenzio la comunicazione sarebbe un flusso caotico e ininterrotto di parole. Ne facciamo esperienza in pratica tutti i giorni senza che quasi ce ne accorgiamo più, basta entrare in un luogo affollato in cui tutti parlano: un ristorante, una sala d’aspetto. Sperimenteremo una babele linguistica, un frastuono assordante, un cozzare di favelle di dantesca memoria: la parola non è più comunicazione ma solo rumore, pura emissione di suoni senza significato. 

Il silenzio: l’arte di tacere

“L’Arte di tacere” dell’abate Joseph Antoine Toussaint Dinouart, pubblicato a Parigi nel 1771 è un interessante libro sul silenzio che meriterebbe di essere letto e riletto. In particolare così si apre il libro dell’abate Dinouart: “E’ bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio”. Ed ancora: “L’arte di tacere è un’arte della parola. Non basta, per tacere, tenere la bocca chiusa. Il silenzio dell’uomo non è il mutismo dell’animale, perché il suo silenzio è espressione: l’uomo parla la lingua del volto”. 

Kafka: il silenzio delle sirene 

Nel noto episodio narrato da Omero, Ulisse tura le orecchie dei compagni con dei tappi di cera e si fa legare a un albero della nave per udire il canto ammaliatore delle sirene. Kafka in un racconto dà una versione diversa, secondo cui Ulisse si fa turare le orecchie con la cera e legare con delle corde, ma la vera arma delle sirene non è il canto bensì il silenzio. Ulisse non ne udì i silenzi e pensava quindi che cantassero e che grazie allo stratagemma della cera fosse protetto dall’udirle. Mentre la nave passava davanti allo scoglio, vedendole di sfuggita, i loro occhi lacrimosi e le labbra socchiuse gli suggerivano che stessero cantando. Nel racconto Kafka aggiunge una postilla dicendo che Ulisse si sarebbe accorto che le sirene non cantavano e quindi si sarebbe salvato proprio fingendo di udirle. Il silenzio sembra quindi dirci Kafka, è molto più incantatorio e suadente del canto.

D’altronde il suono, la prima manifestazione dell’Assoluto, ci tramandano le tradizioni sapienziali, è preceduta dalla vibrazione del silenzio. E dunque cosa ci ha voluto dire Kafka, le cui parabole storie e racconti permettono di accedere a una pluralità di chiavi di lettura non eludendo mai un fondo simbolico? Ogni lettore può dare la sua interpretazione e quindi costruire il senso di questo racconto. Ma cosa può dire questo racconto all’uomo contemporaneo? In un mondo ipertecnologico, votato alla scienza e ai suoi paradigmi di esattezza e razionalità, la dimensione del fantastico non trova più rappresentazione e rispondenza nell’orizzonte semiologico dell’uomo contemporaneo.  Forse proprio a motivo di ciò le sirene hanno perduto ogni incanto affabulatorio schernendosi in un pudico riserbo. Di seguito il racconto di Kafka

Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza.

Per difendersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò incatenare all’albero maestro. Naturalmente tutti i viaggiatori avrebbero potuto fare da sempre qualcosa di simile, eccetto quelli che le Sirene avevano già sedotto da lontano, ma era risaputo in tutto il mondo che era impossibile che questo potesse servire. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la passione dei sedotti avrebbe spezzato ben più che catene e albero. Odisseo non ci pensò, benché forse lo sapesse. Confidava pienamente in quel poco di cera e in quel fascio di catene, e, con innocente gioia per i suoi mezzucci, andò direttamente incontro alle Sirene.

Ora, le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio. Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere. E, in effetti, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, sia che credessero che solo il silenzio potesse vincere quell’avversario, sia che, alla vista della beatitudine nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cere e a catene, si dimenticassero proprio di cantare.

Ma Odisseo tuttavia, per così dire, non udì il loro silenzio, e credette che cantassero e di essere lui solo protetto dall’udirle. Di sfuggita vide sulle prime il movimento dei loro colli, il respiro profondo, gli occhi pieni di lacrime, le bocche socchiuse, ma credette che questo facesse parte delle arie che non udite risuonavano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò appena il suo sguardo fisso nella lontananza, le Sirene sparirono davanti alla sua risolutezza e, proprio quando era più vicino a loro, non seppe più niente di loro.

Quelle – più belle che mai – si stirarono e si girarono, fecero agitare al vento i loro tremendi capelli sciolti e tesero le unghie sulle rocce. Non volevano più sedurre, volevano solo carpire il più a lungo possibile lo sguardo dei grandi occhi di Odisseo.

Se le Sirene avessero coscienza, quella volta sarebbero state annientate. Ma sopravvissero, e solo Odisseo sfuggì a loro.

A questo punto, si tramanda ancora un’appendice. Odisseo, si dice, era così astuto, era una tale volpe, che neppure la Parca del destino poteva penetrare nel suo intimo. Egli, benché questo non si possa capire con l’intelletto umano, forse si è realmente accorto che le Sirene tacevano e ha, per così dire, solo opposto come scudo a loro e agli dèi la suddetta finzione. 

Il silenzio in un racconto di Buzzati

 In questo racconto dello scrittore bellunese, il silenzio si vena di nostalgia nel rimpianto delle cose che danno significato alla nostra vita e non torneranno più. 

“Verranno? Io chiamo ed è silenzio, eppure sono tutte qui intorno le ombre delle cose che non torneranno più, i cari fantasmi, i volti; le risate, le corse pazze, le albe clandestine, le partenze all’avventura, i fuochi accesi, il sole delle domeniche mattina, gli odori del canneto, i pomeriggi nelle enigmatiche soffitte, le schioppettate, il mendicante delle grandi strade che alla sera racconta, i ragni, le nebbie del crepuscolo, i nuvoloni immensi che si innalzavano a formare immagini di gloria e di trionfo, l’incantesimo della luna nel giardino, le paure notturne, i fiumi, le acque verdi e profonde della ripa”. Alla morte del grande scrittore il 28 gennaio del 1972 per un cancro al pancreas proprio come il padre, Indro Montanelli sulle pagine del Corriere della Sera commentò così: “Con Buzzati se ne va la voce del silenzio, se ne vanno le fate, le streghe, gli gnomi, i presagi, i fantasmi. Se ne va, dalla vita, il Mistero. E che ci resta?”. Forse il silenzio dell’attesa potremmo rispondere sempre chiosando Buzzati…Dino Buzzati, da Fantasma ribelle, in “In quel preciso momento” 

The sound of silence: il suono del silenzio Hello darkness, my old friend

I’ve come to talk with you again

Because a vision softly creeping

Left its seeds while I was sleeping

And the vision that was planted in my brain

Still remains

Within the sound of silenceIn restless dreams I walked alone

Narrow streets of cobblestone

‘Neath the halo of a street lamp

I turned my collar to the cold and damp

When my eyes were stabbed by the flash of a neon light

That split the night

And touched the sound of silenceAnd in the naked light I saw

Ten thousand people, maybe more

People talking without speaking

People hearing without listening

People writing songs that voices never share

No one dared

Disturb the sound of silence”Fools” said I, “You do not know

Silence like a cancer grows

Hear my words that I might teach you

Take my arms that I might reach you”

But my words like silent raindrops fell

And echoed in the wells of silenceAnd the people bowed and prayed

To the neon god they made

And the sign flashed out its warning

In the words that it was formingAnd the sign said, “The words of the prophets

Are written on the subway walls

And tenement halls

And whispered in the sounds of silence” Questa la traduzione della canzone di Simon & Garfunkel anno 1964. Il brano è presente nel film Il laureato. Il frastuono del silenzio

Salve tenebra, vecchia amica mia

Eccomi a parlare ancora con te

Perché una visione silenziosamente

Si è intrufolata mentre dormivo

Ed ha lasciato una traccia

E questa visione mi si è impiantata in testa

E lì rimane ancora con il frastuono del silenzioIn sogni irrequieti vagai da solo per viottoli di acciottolato

sotto la tenue luce di un lampione

rivoltai il mio bavero per il freddo e per l’umidità

quando i miei occhi vennero trafitti dal flash di una luce al neon che squarciò la notte

E scosse il frastuono del silenzio.E nella luce vivida vidi

Diecimila persone, forse più

Persone che conversavano senza parlare

Persone che udivano senza ascoltare

Persone che scrivevano canti che quelle voci

Non avrebbero mai condiviso

E nessuno osava disturbare

Il frastuono del silenzio.“Idioti” dissi, “Non sapete che

Il silenzio cresce come un cancro

Udite le parole che potrei insegnarvi

Prendete le mie braccia con le quali potrei Raggiungervi.”

Ma le mie parole come silenti gocce di pioggia

Caddero ed echeggiarono nei pozzi del silenzioE le persone chine in  preghiera

Al dio neon che si erano creati

E l’insegna mostrò chiaramente il suo monito

Nelle parole che si stavano formando

E la scritta disse: “Le parole

dei profeti sono scritte

sulle pareti delle metropolitane

Negli atri dei caseggiati

E mormorano il frastuono del silenzio”.

Il brano, testo aperto che dà adito a più di una interpretazione, sembra prefigurare quel che sarebbe avvenuto con l’evoluzione tecnologica: la comunicazione è sempre più mediata dall’utilizzo di queste protesi tecnologiche, smartphone tablet. Suggestive le parole: “Persone che conversavano senza parlarePersone che udivano senza ascoltare”. Seguitando le suggestioni poetiche del testo, in una società in cui si parla senza comunicare e si sente senza ascoltare, non rimane che il rumore del silenzio, come traccia di sottofondo che la solitudine scava sempre più dentro ognuno di noi. 

Il chiacchierone e il taciturno: quando la comunicazione è inefficace 

Il taciturno è colui che si sottrae alla disponibilità del dialogo. Defilandosi dal legame sociale, lo circonfonde un alone di mistero, suscita interrogativi: perché non parla? A cosa corrisponde questo suo silenzio? si annoia? non ha nulla da dire? Il silenzio crea una distanza, quasi un senso di superiorità che ci separa dagli altri, come se non li ritenessimo degni della nostra parola, parola che contraddistingue l’umano per antonomasia. Si ingenera negli altri quindi il timore che il taciturno possa disprezzarli, che non stima degni di considerarli in uno spazio di socialità comune qual è il dialogo. La conversazione presuppone una sorta di rito implicito di partecipazione.

Il taciturno rompe questa convenzione. Se il taciturno cade nel vero e proprio mutismo incarna la paura e l’orrore di una società che collassi nel silenzio, una società senza linguaggio. Le parole del chiacchierone invece diluviano, non dando agli altri la possibilità di formulare il loro pensiero. Il chiacchierone che parla a raffica non conosce la riflessione che nasce dal ragionamento, le sue sono spesso parole senza significato, puri suoni. Parla per parlare, non per dire. Il saggio è un centellinatore che fa un uso misurato delle parole. Il chiacchierone è un prodigo che spreca le parole nell’emorragia del discorso. La giusta misura è quindi quella del saggio che sa quando parlare e quando tacere. 

Quanti silenzi? Tanti quante le situazioni della vita in cui possiamo imbatterci. Vi è il silenzio imbarazzato, quello di complicità, di intesa, il silenzio sprezzante di chi si pone sempre qualche spanna sopra gli altri. Vi è poi il silenzio omertoso e vigliacco di chi sa ma non parla. Vi è il silenzio di Dio alle domande dell’uomo e alle nefandezze della storia. Ma per quanto riguarda queste ultime l’uomo farebbe bene a chiederne ragione a se stesso. Un silenzio di sorpresa, stupore e meraviglia dinanzi all’inaspettato, un silenzio pietrificante che nasce dal dolore perché ogni vero dolore è muto e inconsolabile. Il silenzio di ascolto dell’altro, attento e partecipe di chi entra in relazione col prossimo. Vi è poi il silenzio romantico che sboccia tra gli innamorati. Il silenzio lo custodisce.

Qualsiasi parola violerebbe l’accordo di quell’intimità silenziosa che parla senza parole. Esiste poi anche un silenzio letterario, è la retorica del silenzio. Si tratta della figura retorica della reticenza, nota anche come aposiopesi. Celebre esempio letterario è il dantesco “quel giorno più non vi leggemmo avanti”. In questi casi l’implicito, ovvero ciò che non si dice lascia intendere molto di più di quel che si dice. Si tratta quindi di un tacere che è più eloquente delle parole, che dice di più di quanto si potrebbe dire con le parole. 

Come orientarsi nella babele internettiana tra rumore e silenzio 

Vi è poi un uso figurato del silenzio e del rumore a definire altri contesti comunicativi. Per orientarsi ad esempio nel web, per scremare i risultati utili da quelli inutili dobbiamo operare una cernita: questo significa che dobbiamo sia diminuire il rumore, ovvero l’insieme dei documenti trovati ma irrilevanti, che il silenzio, ovvero documenti pertinenti ma non trovati o non disponibili. Va tenuto presente che esiste anche un punto di futilità o limite di utilità che sta ad indicare il numero massimo di risorse informative che un utente è disposto a reperire per la sua ricerca. Si tratta di una soglia soggettiva. Molto spesso a proposito della conoscenza in rete si parla di rumore semantico. Quando la ridondanza delle informazioni supera la nostra soglia di attenzione alcune notizie generano solo rumore e nessun contenuto informativo. E’ accaduto ad esempio a un certo punto col Covid e potrebbe accadere anche con la guerra in Ucraina. Internet è utile per il reperimento delle informazioni, ma considerarla come una fonte di conoscenza vera e propria, al pari dei libri o sostitutiva di approfondimenti, può dare adito a degli equivoci. 

Il rumore semantico si verifica nel campo soprattutto della comunicazione. Si ha quando il nostro interlocutore, non sempre per sua responsabilità, non decodifica correttamente il nostro messaggio. E’ questo il classico caso del professore erudito nella sua materia ma che non è in grado di parteciparne i rudimenti agli studenti. La sua lezione andrà a generare quindi “rumore” in chi lo ascolta.

La parola è d’argento, il silenzio è d’oro 

Con le parole, espressione della creatività linguistica per eccellenza, entriamo in relazione con gli altri. Tuttavia una certa tradizione di pensiero ha sempre espresso delle riserve nei confronti della parola connettendovi una valenza orientata perlopiù al negativo. Il Qoelet ad esempio sottolinea che c’è un “un tempo per tacere un tempo per parlare”. Un proverbio arabo dice: “Apri la bocca solo se sei sicuro che quello che dirai sarà più bello del silenzio”. Questo perché la parola è veramente detta bene quando è accompagnata al silenzio. Saper parlare implica che si è anche in grado di sapere quando tacere. E’ noto infatti il proverbio secondo cui la parola è d’argento e il silenzio è d’oro e quindi è opportuno trovare il giusto rapporto tra parola e silenzio per stabilire un equilibrio armonico. 

Il silenzio dei mistici: la teologia apofatica 

Ad inaugurare la teologia apofatica, ovvero una teologia “negativa” è Dionigi l’areopagita (Lo pseudo-Areopagita). Ciò che possiamo conoscere di Dio che è mistero infinito, è infinitamente minore rispetto a quello che non conosciamo del divino. Secondo la teologia negativa non si può affermare alcunché di positivo circa Dio. Per la teologia apofatica che affonda le sue radici nella tradizione neoplatonica, si può parlare di Dio solo per via di negazione. La mistica in questo senso appare come la via privilegiata per giungere al trascendente, in quanto nel momento dell’incontro con la luce inaccessibile del divino esiste solo il silenzio.

Lo stesso Dante quando parla del Paradiso, per riuscire in questa impresa impari, ricorre al linguaggio metaforico. Nei mistici questa unione con Dio avviene sul piano dell’ineffabile perché è indicibile col linguaggio umano. L’uomo quindi si annulla in Dio. Basti pensare che mistico è parola che deriva dal greco myein e significa “esser muto”. Proprio per questo nella teologia apofatica non si può affermare nulla di Dio se non con delle negazioni e col frequente ricorso alla metafora e al silenzio stesso. Nel monachesimo cristiano che nasce nel quarto secolo nel deserto egiziano, l’anacoreta, il mistico si confronta ogni giorno col silenzio e la solitudine che favoriscono il suo raccoglimento interiore. Questo silenzio tutt’altro che mendico di senso, avvicina a Dio, trabocca di significato. Basti pensare anche al 73 capitoli di cui si compongono le regole da San Benedetto da Norcia che sono la guida del monachesimo europeo.

In ogni caso l’esperienza del silenzio del monaco che vive in solitudine non elimina il legame e il rapporto con gli altri. Le regole monastiche insistono su questo uso disciplinato della parola per evitare il peccato di lingua che deriva non solo dalle parole che un uomo pronuncia, ma anche da quelle che pensa dentro di sé. Il silenzio è una via che quindi permette al monaco di incamminarsi verso Dio. Tuttavia vanno temperati sia gli eccessi del linguaggio che gli eccessi del silenzio. Il monastero è quindi un luogo di pace lontano dal rumore del mondo, che anche i laici possono prendere a modello. 

Il silenzio scelto e il silenzio imposto 

Il primo è quello proprio individuale che può derivare da un atteggiamento di taciturnità di cui abbiamo già discorso. Il secondo invece è una imposizione dall’esterno, come avviene ad esempio nei regimi dittatoriali oppure può essere subito, sia pure senza consapevolezza, a causa dell’adesione acritica ai condizionamenti culturali non vagliati al lume della ragione. Il diritto di parola e quindi la libertà di espressione è certo una conquista fondamentale propria delle democrazie. L’articolo 21 della carta costituzionale recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.”

Il rumore come inquinamento 

Al giorno d’oggi l’uomo è letteralmente assediato dal rumore e quindi riscoprire una dimensione interiore in cui può nuovamente ascoltarsi non può che fare bene. Il rumore quando supera una determinata soglia di decibel è una vera e propria forma di inquinamento con cui ha triste familiarità chi abita nelle metropoli. Il rumore eccessivo è come uno sfondo grigio e nebbioso che sfoca le nostre esistenze. Quando è eccessivo può produrre danni alla salute, in particolare al sistema cardiovascolare, disturbi del sonno e perfino ritardare l’apprendimento nei bambini. Il rumore impatta anche direttamente sulla nostra salute mentale in quanto può favorire stati d’ansia e depressione. Ed ovviamente possono esserci danni all’udito.

Non è un caso infatti che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato come il rumore sia uno dei principali rischi per la salute fisica e mentale in Europa. Insomma il rumore produce stress con tutte le conseguenze del caso. Il silenzio può definirsi un bene essenziale. L’assenza di rumore produce molti benefici a livello fisico: abbassa la pressione sanguigna, diminuisce la frequenza cardiaca, stabilizza il respiro, riduce la tensione muscolare e aumenta la concentrazione. Altri studi invece hanno messo in evidenza che momenti di riflessione e solitudine contemplativa sono un vero toccasana per la salute mentale contro l’ansia e i comportamenti depressivi da burnout. Ognuno di noi in qualsiasi momento della giornata può vivere l’incontro col silenzio, uno spazio da dedicare a se stessi che può diventare una pratica quotidiana: basta abbassare il volume gli apparecchi che abbiamo in casa, televisione, radio, e spegnere altri dispositivi. Disconnettersi dal rumore è quindi fondamentale per il recupero del nostro benessere psico-fisico.

Il silenzio, merce sempre più rara, comincia ad avere un costo, una sorta di privilegio per pochi che sono disposti a pagare per goderne i benefici. L’industria dell’insonorizzazione sta vivendo la sua epoca d’oro. Nei treni, negli aerei e in macchina non accettiamo più che il rumore ci precluda le nostre conversazioni. Anche il mercato immobiliare, per gli appartamenti che si trovano in ambienti lontani dal rumore, immersi nel verde prevede un prezzo maggiore, e si va sempre più affermando una tendenza nel turismo elitario nello scegliere case di vacanza panoramiche con vista mare e giardino in luoghi isolati acusticamente. 

La camera anecoica: la stanza del silenzio perfetto

In questa stanza completamente isolata dai rumori esterni sentiamo rumori normalmente impercepibili, ovvero i rumori del nostro corpo: il cuore che batte, lo stomaco che borbotta. Non è facile passare del tempo in una stanza del genere dove tutti i rumori provengono dall’interno e non come siamo abituati, dall’esterno. Sentire il proprio corpo, quasi che il rumore ne sia una oggettivazione, sentirsi vivere produce una impressione straniante. Il massimo record di resistenza in una stanza del genere per una persona è di 45 minuti. Viene testata dai ricercatori sugli astronauti o per fare studi sulla sordità o dalle aziende di elettrodomestici. 

La riscoperta del silenzio 

Dovremmo quindi riscoprire l’importanza del silenzio, per vivere in una società meno inquinata dal rumore. A chi frequenta corsi di meditazione viene insegnato proprio come il raccoglimento in se stessi, l’ascolto del silenzio, per usare una espressione ossimorica, favorisce una apertura di sé al mondo. Il silenzio come capacità di introspezione ci permette quindi di guardarci dentro, è uno sguardo interiore, un obiettivo fotografico puntato verso il nostro io, un selfie dell’anima di cui siamo i custodi. Ma c’è un modo alla portata di tutti per riscoprire il silenzio e i suoi benefici. Basta fare una passeggiata, magari in un parco o in campagna ancora meglio. La natura, sempre più lontana dalle nostre città, favorisce un recupero del rapporto armonico tra noi e l’ambiente. 

Riscoprire il silenzio: Le fantasticherie del sognatore solitario di Rousseau 

Nelle fantasticherie del sognatore solitario di Rousseau pubblicato nel 1782, il silenzio è compagno della meditazione e della riflessione. Ne riportiamo qualche brano: “Talvolta i miei trasognamenti finiscono con una meditazione; più spesso però sono le mie meditazioni a finire in un trasognamento”. “Il paese delle chimere è, in questo mondo, l’unico degno di essere abitato”. “Costretto ad astenermi dal pensare, per paura di pensare soltanto alle mie sventure, costretto a contenere i resti di un’immaginazione ridente, ma che sempre più si affievolisce e potrebbe alla fine tacitarsi sgomenta dopo tante angosce… non posso tuttavia concentrarmi interamente su me stesso, perché la mia anima espansiva cerca nonostante tutto di estendere la sua esistenza e il suo sentimento agli altri esseri”.

La parola trova nella morte il suo limite invalicabile, d’altronde come potrebbe dire l’indicibile per definizione, come potrebbe mai dire la morte? E’ dal silenzio che origina la parola, ma questo silenzio è inattingibile, della morte è il sigillo, è intraducibile in qualsiasi linguaggio perchè si situa al di là del dicibile di qualsiasi linguaggio. Ludwig Wittgenstein, nel celebre “Tractatus logico-philosophicus” afferma:”tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. E’ un silenzio aperto che ci invita ad interrogarlo? Oppure è la risposta ad ogni nostro interrogativo destinato a naufragare nel nulla? Il resto è silenzio è la sentenza che Shakespeare fa pronunciare ad Amleto prima di morire.

Ma l’uomo continua ad opporre al silenzio la parola, ultimo baluardo a sua vana difesa, anche se l’ultima parola spetterà sempre al silenzio. Di fronte a questo mistero inesprimibile dell’esistenza, non ci resta che segnare digitare i nostri vani segni di uomo in vaniloqui alla ricerca del senso, oggi su carta, foglio elettronico, ieri incisi sulla pietra nelle grotte di Lascaux e far scaturire le nostre voci in un dialogo, contrappuntate in un alterco anche, intonate in un canto, tese in un grido, prima di scendere “nel gorgo muti”.

Marco Troisi

Redazione
Redazione
Giuseppe D’Alto: classe 1972, giornalista professionista dall’ottobre 2001. Ha iniziato, spinto dalla passione per lo sport, la gavetta con il quotidiano Cronache del Mezzogiorno dal 1995 e per oltre 20 anni è stato uno dei punti di riferimento del quotidiano salernitano che ha lasciato nel 2016.Nel mezzo tante collaborazioni con quotidiani e periodici nazionali e locali. Oltre il calcio e gli altri sport, ha seguito per diversi anni la cronaca giudiziaria e quella locale non disdegnando le vicende di spettacolo e tv.

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