Evelina SgarbiEvelina Sgarbi

Nuovo sfogo della figlia di Vittorio Sgarbi a Verissimo

«Ho visto mio padre in udienza. Era assistito, indotto, completamente plagiato». La frase esce quasi come una condanna e arriva dritta, tra rabbia e sconforto, dallo studio di Verissimo, dove Evelina Sgarbi si è seduta davanti a Silvia Toffanin per descrivere l’udienza che ha visto il padre al centro di una controversia dolorosa e pubblica.

Le parole, scandite con fatica e lucidità, non lasciano spazio a equivoci: quello che Evelina racconta è la frattura profonda tra ciò che resta privato — un rapporto padre-figlia — e l’area grigia della gestione esterna, dell’accudimento che lei ritiene imposto e non scelto. «Più o meno come immaginavo di trovarlo», ammette, «ma un po’ meno magro di come lo avevo visto in ospedale». E proprio questo dettaglio, il confronto tra l’ospedale e l’udienza, diventa per lei una lama.

Che cosa ha visto Evelina in aula?

La scena descritta è di quelle che somigliano a un copione surreale: suo padre entra in aula con i suoi avvocati, porta un libro che regala alla giudice, firma con tratto che provoca battute sulla sua firma “falsa”. Evelina racconta di avere avuto l’impressione che tutto, perfino la spontaneità del gesto, fosse costruito: «Le sue frasi erano indotte — dice — praticamente non mi ha detto nulla. Se fosse stato un incubo sarebbe stato meglio per come è andata». Alla domanda implicita su chi controlli la volontà dell’uomo, la risposta è politica e personale: non è solo questione di lucidità, ma di chi attorno a lui decide cosa è meglio, fino al punto di renderlo un uomo “d’accordo ad essere accudito”. Un’accusa pesante, che chiama in causa barriere etiche, giuridiche e familiari.

E se fosse tutta una recita?

Il sospetto di una recita non è solo retorica: Evelina racconta di battute in aula, di un clima che sembrava voler stemperare con leggerezza ciò che a lei pareva gravissimo. «Alla fine gli hanno fatto anche l’autografo», racconta con amarezza, E ricorda un’offerta post-udienza che suona come beffa: «Sabrina gli ha detto: “chiedile di venire a casa” e lui ha detto: “vieni a casa”», una conversazione che per Evelina aveva un sapore di artificio piuttosto che di autentica relazione familiare. È difficile non percepire la fatica di una figlia che chiede qualcosa di molto semplice — trasparenza sulle terapie, accesso alle cartelle — e si vede opporre un muro di buone maniere e codici processuali che la lasciano isolata.

Chi decide per il padre di Evelina? E con quali diritti?

Le richieste di Evelina sono nette: vuole sapere come viene curato suo padre, quali farmaci gli vengono somministrati e con quale logica. Denuncia di non aver mai ricevuto le cartelle cliniche e chiede che le sia spiegato il trattamento. È una richiesta che ha, sul piano umano, il sapore di un diritto elementare e, sul piano legale, apre questioni complesse su tutela, amministrazione di sostegno e limiti della rappresentanza. «Se una persona è poco lucida e anche in quella poca lucidità è d’accordo con quelle persone che lo gestiscono, significa che non c’è via d’uscita», dice Evelina, e quella “via d’uscita” è forse il centro di tutto: tutela o controllo? Cura o gestione che espropria?

È stata sola in aula: “tutti contro di me”

La violenza del racconto non è solo nelle parole sullo stato del padre, ma anche nella sensazione di essere stata lasciata sola: «Ho affrontato l’udienza da sola col mio avvocato, era praticamente un “tutti contro di me”», dice Evelina, e aggiunge che si è sentita come in un film. Il senso di isolamento — aggravato dal fatto che alcuni le rimproverano di aver parlato in televisione — la rende ancora più decisa nelle sue accuse: «Mi accusano di farlo per visibilità o per denaro. Lo trovo squallido».

E il giudice cosa le ha detto?

Il giudice, riferisce Evelina, è stato netto: «Io da figlia non sarei andata in tv a parlare di questo». Frase che suona come una reprimenda morale, ma anche come un richiamo alla dimensione privata della sofferenza. Evelina non sfugge all’autocoscienza: «Mi assumo la piena responsabilità di quello che dico», ma rivendica il diritto di raccontare la verità che percepisce. E proprio qui si incrocia la questione pubblica: quando i rapporti privati — cura, accudimento, disponibilità d’informazioni cliniche — diventano oggetto di un dibattito in cui entrano giudici, avvocati, tutori e l’opinione pubblica, il confine tra tutela e arbitrio diventa labile.

Dove porta questa storia?

Il racconto di Evelina Sgarbi è un allarme che va oltre la sua storia: interpella famiglie, professionisti della cura, magistratura e media. Mette al centro la dignità della persona anziana, il diritto dei parenti a essere informati, la necessità che la tutela non si trasformi in un regime che depaupera autonomia e affetti. Le parole di Evelina sono una richiesta di verità e trasparenza: non è solo una battaglia personale, ma una domanda sul modo in cui la società protegge — o soffoca — i suoi membri più fragili.

Alla fine dell’intervista resta il sapore amaro di una figlia che non si arrende: «Voglio che mi sia detto come lo trattano, che tipo di medicinali gli danno». È una richiesta semplice, umana. È la richiesta di una figlia che pretende, prima di tutto, di poter ancora parlare con suo padre, e di sapere se quell’uomo che ha amato è davvero sé stesso o una figura plasmata dall’intorno.

Di Redazione

Giuseppe D’Alto: classe 1972, giornalista professionista dall’ottobre 2001. Ha iniziato, spinto dalla passione per lo sport, la gavetta con il quotidiano Cronache del Mezzogiorno dal 1995 e per oltre 20 anni è stato uno dei punti di riferimento del quotidiano salernitano che ha lasciato nel 2016.Nel mezzo tante collaborazioni con quotidiani e periodici nazionali e locali. Oltre il calcio e gli altri sport, ha seguito per diversi anni la cronaca giudiziaria e quella locale non disdegnando le vicende di spettacolo e tv.

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