Omicidio Alessandro Venier, la drammatica ricostruzione della madre
Nuovi elementi tutti da verificare. Nuove agghiaccianti ricostruzioni da riscontrare. La vicenda di Alessandro Venier, 33enne ucciso nella sua villetta di Gemona, in provincia di Udine, tiene col fiato sospeso l’Italia intera per le orribili modalità del delitto ma soprattutto perché la madre ha confessato di aver ucciso il figlio. Nel tragico epilogo è coinvolta anche la compagna dell’uomo. Un delitto che secondo i primi riscontri degli inquirenti sembra essere premeditato e spietato, consumatosi in una casa dove viveva anche una neonata di sei mesi.
Secondo quanto riportato nelle indagini, i rapporti tra le tre persone erano deteriorati da tempo. Il contesto familiare era segnato da continui episodi di minacce, violenze verbali e fisiche, e da una convivenza esplosiva. Nessuna denuncia ufficiale era mai stata sporta alle forze dell’ordine: paura di ritorsioni e un clima di terrore quotidiano avevano convinto le due donne a tacere.
Il legame tra suocera e nuora e il movente
Le due donne avevano sviluppato un legame molto stretto, quasi simbiotico, complice anche la nascita della bambina e la depressione post-partum della compagna. “Era da mesi che mi chiedeva di ucciderlo”, ha raccontato Lorena Venier.
Le continue minacce dell’uomo, come quella agghiacciante: “Ti porto in Colombia e ti annego nel fiume, tanto laggiù non ti cerca nessuno”, avevano portato le due a convincersi che l’unica via d’uscita fosse il delitto. “Una volta calmate le acque, Mailyn sarebbe tornata in Colombia con la bimba. Io le avrei raggiunte appena in pensione”, ha detto la madre della vittima.
Il piano omicida: sonnifero, insulina e strangolamento
La ricostruzione fornita dalla madre della vittima, l’infermiera 61enne Lorena Venier, è agghiacciante. Il 25 luglio, intorno alle 17:30, avrebbero somministrato un sonnifero ad Alessandro. Dopo ore di agonia, l’uomo sarebbe morto attorno alle 23. In quelle ore, le due donne hanno tentato di ucciderlo con diversi metodi: prima un cuscino, poi con le mani, fino allo strangolamento con i lacci degli scarponi da parte della compagna.
“Non riuscivamo a finirlo” – ha detto la madre agli investigatori, raccontando come l’insulina prelevata anni prima dal luogo di lavoro e conservata in casa abbia fatto effetto lentamente. Una volta morto, il corpo è stato fatto a pezzi con un seghetto: il cadavere era troppo ingombrante per essere nascosto nel bidone di plastica che avevano preparato. I resti sono stati coperti con calce viva e nascosti nel garage.
Nessuna denuncia, nessun segnale
Ciò che rende la vicenda ancora più drammatica è il totale silenzio che ha avvolto per anni questa famiglia. Nessuna denuncia, nessuna segnalazione ai Carabinieri. L’orrore covava tra le mura domestiche, lontano dagli occhi di chi avrebbe potuto intervenire.
Secondo gli investigatori, non c’è alcun segno che la neonata fosse coinvolta nei fatti. La piccola si trovava in una stanza vicina durante l’intera vicenda.
La detenzione e gli sviluppi del caso
La compagna dell’uomo si trova ora nell’Istituto a custodia attenuata per madri della Giudecca, a Venezia. I suoi legali sperano di poterla sentire nelle prossime ore per raccogliere una versione dei fatti che, finora, non è mai stata ufficialmente verbalizzata.
Il caso di Gemona ha lasciato attonita l’opinione pubblica. Un’escalation di violenze taciute e una conclusione tragica che riaccende il dibattito sulla violenza domestica e sulle responsabilità della rete di protezione sociale.