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Tic tac, rintoccano le lancette dell’orologio: che ore sono? a che ora ci vediamo oggi? torniamo in un luogo caro alla memoria che il presente scempia… accadde il tal giorno a tal ora…guardiamo la foto di qualche anno prima e la mente divaga trascinata nel gorgo dei ricordi… l’infanzia che fu si palesa d’improvviso oggi in un giocattolo che sortisce dalle minutaglie nei cartoni alla rinfusa durante i preparativi per un trasloco…In tutte queste situazioni si aggira un convitato di pietra, il tempo divoratore d’ogni cosa che continuamente va, scorre, dilava, corrompe nei secoli dei secoli. Il tempo col suo lavorio senza posa dissipa le nostre vite. Di tanto in tanto i cari fantasmi della memoria si ridestano e si accampano i fotogrammi sbiaditi e gualciti delle nostre esistenze, come sequenze cinematografiche. Prima o poi nella vita facciamo i conti con questa parvenza metafisica. Non lo si vede, non lo si sente, ma sappiamo che c’è, silenzioso e furtivo accompagna ogni passo della nostra esistenza. Da banale argomento di conversazione, trito e ritrito in espressioni metaforiche d’uso quotidiano quando non sappiamo su cos’altro intrattenerci con l’improvvisato interlocutore, il tempo scandisce le nostre vite. E si sa che ha sempre fretta, non sta mai fermo neanche per un attimo. Una volta andato è perduto, la memoria e i ricordi possono ridestarne una eco, ma non richiamarlo indietro, è sordo agli incantesimi di miele della parola che neanche Orfeo con la sua lira. Al giorno d’oggi sembra che non ve ne sia mai abbastanza, quante volte ci troviamo a esclamare nel corso della giornata di non avere mai tempo per fare questo o quell’altro? In realtà è il cattivo uso che facciamo del tempo a farci sembrare che ci manchi sempre. L’impiego del tempo dipende esclusivamente da noi, rientra nella nostra disponibilità, per cui sta a noi impiegarlo nel modo migliore.

Finché siamo giovani e in salute e lo sono anche le persone a cui vogliamo bene, non avvertiamo lo scorrere del tempo, ne abbiamo solo vaghezza ma nessuna contezza effettiva, quindi neanche ci poniamo domande sul senso dello stesso. Ma poi inevitabilmente col passare degli anni qualcosa si incrina man mano che il tempo ci viene sempre più a mancare. Avvertiamo il senso del tempo proprio quando comincia a mancarci, in quel momento cogliamo esistenzialmente la nostra finitezza.

La frenesia è ciò che contraddistingue i tempi moderni: la velocità il suo mantra. Oggi giorno si fa una gara, una corsa ad occupare quanto più possibile il tempo in modo da non avere neanche un minuto libero. Ma questo affaccendarsi continuo, lungi dal farci vivere con pienezza il nostro tempo, non ce ne accorgiamo, in realtà ci sottrae tempo. Sappiamo bene che la vita ha lo stesso traguardo per tutti, e dunque a che pro affrettarsi, sgomitare per arrivare primi? Pensiamo così facendo di guadagnare tempo, ma in realtà lo perdiamo. Quando la clessidra starà per vuotarsi, se abbiamo speso bene il tempo della nostra vita, potremo congedarci con la malinconia che certo accompagna la fine di ogni viaggio, ma senza rimpianti. 

Seneca: spendere bene il tempo della vita 

Nella prima lettera a Lucilio, così scrive Seneca: “Tutto, o Lucilio, dipende dagli altri: solo il tempo è nostro. Abbiamo avuto dalla natura il possesso di questo solo bene, sommamente fuggevole, ma ce lo lasciamo togliere dal primo venuto”. Nel De brevitate vitae, sempre il filosofo stoico scrive: “La vita se la sai usare è lunga”. 

Una fortunata metafora del tempo antico paragona il tempo proprio a una moneta che quindi deve essere ben spesa. Nessuno, dice Seneca, ne riconosce il valore, benché sia il bene più prezioso. C’è ma non lo si vede né lo si sente, non cade sotto la sfera e il dominio dei sensi. Per Seneca invece se l’uomo sa vivere bene il suo tempo, impiegarlo nel modo giusto, non è affatto breve. Pertanto seguendo una partizione virtuosa, una parte del tempo andrà dedicata all’attività politica, un’altra andrà riservata agli affari e un’altra ancora alle gioie della vita privata. Il tempo è bene speso se lo investiamo nelle belle arti, nella filosofia, all’insegna dell’ozio contemplativo. Il tempo che viviamo oggi, rovescia la metafora antica, per cui secondo la filosofia dell’utile il tempo è denaro. Ed è forse questo il modo peggiore per impiegare il nostro tempo: pensandolo unicamente in funzione del denaro che un giorno non potrà mai comprare il tempo che abbiamo dilapidato per accumularlo. 

Tempi moderni: tempo a termine 

Al giorno d’oggi abbiamo un tempo calendarizzato che scandisce le nostre vite. Abbiamo parcellizzato il tempo: il tempo per lo studio, il tempo per il lavoro, il tempo per gli amici, il tempo per l’amore, il tempo libero, il tempo per le vacanze. E allora come mai a fine giornata abbiamo come l’impressione di averlo sprecato? Oggi viviamo un tempo che è continuamente in scadenza. Le agende ridondano di appuntamenti, incontri, abbiamo sempre qualcosa da fare. Ci siamo relegati in questo tempo che non ci lascia più tempo per fare niente. L’accelerazione è il contrassegno saliente della modernità. La velocità imprime un ritmo forsennato alle nostre vite: una volta un professionista rispondeva a 10 lettere al giorno, oggi invece può ritrovarsi nella posta elettronica qualcosa come 100 email in media da evadere. Accelerare significa arrivare prima al traguardo, ma ne vale davvero la pena? Dovremmo invece recuperare il concetto caro agli antichi di tempo come otium. Per spendere bene il nostro tempo dobbiamo dargli significato e quindi recuperare il tempo per fermarsi, per riflettere, per leggere, per l’amicizia, l’amore, la bellezza, l’arte, il gioco, tutti aspetti che ci gratificano rendendo la vita degna di essere vissuta. Con la tecnologia digitale, l’uomo che è comunque lo stesso di ogni tempo, è sottoposto a una miriade di input, informazioni, messaggi, etc. Ma esiste una soglia massima oltre cui il nostro cervello non può recepire questi input. Ed ecco lo stress per mancanza di tempo, il burnout dei lavoratori. Non è un caso che la pandemia da coronavirus abbia costretto le aziende anche a rivedere le modalità lavorative che sono state riorganizzate con lo smart working. Recentemente si è affermato anche lo “south working”, ovvero sempre più persone decidono di tornare a casa e lavorare in remoto. Il lavoro si svolge quindi in una sede diversa rispetto a quella classica dell’ufficio. Insomma si tratta di una nuova gestione del tempo che passa per una riorganizzazione della prestazione lavorativa. D’altronde solo se ci riappropriamo del nostro tempo possiamo dargli significato. 

Tempo, Kronos e kairos: due modi di intenderlo 

Nella mitologia greca il tempo chronos richiama Kronos, ovvero il Saturno dei latini. Da un punto di vista iconografico, Kronos lo si presenta nelle vesti di un vecchio provvisto di due grandi ali e di una falce in mano. La sua caratteristica è di divorare i figli appena nati perché il tempo si satolla solo divorando ogni cosa. Kairos invece lo potremmo tradurre come il fare qualcosa al momento giusto, conveniente, opportuno, si tratta quindi di cogliere l’occasione. Non è un caso che nell’iconografia Kairos lo si rappresenta come un fanciullo dai tratti delicati con le ali ai piedi e alle spalle che impugna un rasoio affilato e muove una bilancia in precario equilibrio. La sua caratteristica è che presenta solo in fronte un ciuffo di capelli, per il resto è completamentre calvo. Solo se ci si pone davanti è possibile quindi afferrarne il ciuffo, ma se il gesto tarda o indugia, la mano non afferrerà nulla e si poserà su un cranio liscio e quindi il momento opportuno sarà irreparabilmente fuggito per sempre. 

Il tempo in Dante, Purgatorio 

Dante colloca Forese Donati, l’amico di gioventù, tra i golosi della VI Cornice del Purgatorio, la cui pena consiste nel soffrire la fame perenne resa evidente da una spaventevole magrezza. D’altronde “il tempo è caro in questo regno”. Pertanto sia i mercanti che i chierici dovranno conoscere questa valuta preziosa del tempo in modo da poter calcolare con precisione il tempo di penitenza dell’anima dopo la morte. Le anime del Purgatorio devono guadagnarsi la salvezza eterna ascendendo alla cima del Purgatorio conoscendo dolore e tormento quale strumenti di purificazione. Solo il regno del Purgatorio pertanto è sottomesso al tempo. Dante nel Purgatorio incontra Forese Donati che in vita fu particolarmente indulgente ai piaceri della tavola e quindi adesso deve espiare questo suo trasmodare per il cibo con la fame e la sete per lo stesso tempo che in vita ha dedicato alle gozzoviglie. Dante esprime stupore considerando che la morte del Donati è avvenuta meno di 5 anni prima e si è pentito solo in punto di morte, eppure ha già percorso 6 delle 9 cornici del monte del Purgatorio. Donati gli spiega che è grazie a Nella, la sua cara “vedovella”, che ne ha accorciato la pena con le sue preghiere. Il principio della giustizia temporale in Purgatorio sta quindi a significare che chi ha scialacquato il tempo in vita nell’aldiqua, deve scontarlo nell’aldilà con la pena corrispondente perché va misurata in termini temporali. Il tempo che si spreca nell’aldiqua va quindi pagato per contrappasso nell’aldilà. Ma non tutte le anime dei peccatori in Purgatorio procedono così speditamente. Anche Virgilio che è un pagano, insegna col suo motto quanto è disdicevole sprecare il tempo in terra: “che perdere tempo a chi più sa più spiace”. 

Canzoniere (272) 

Il canzoniere di Petrarca è disseminato di versi sulla brevità della vita, sul tempo che sempre ci incalza e stringe. Il sonetto “La vita fugge e non s’arresta un’hora” composto “In morte di Madonna Laura” è estremamente rappresentativo della poetica incentrata sulla fuggevolezza del tempo del poeta aretino. 

La vita fugge, et non s’arresta una hora,

et la morte vien dietro a gran giornate,

et le cose presenti et le passate

mi dànno guerra, et le future anchora;e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora,

or quinci or quindi, sí che ’n veritate,

se non ch’i’ ò di me stesso pietate,

i’ sarei già di questi penser’ fòra. Tornami avanti, s’alcun dolce mai

ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte

veggio al mio navigar turbati i vènti;veggio fortuna in porto, et stanco omai

il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,

e i lumi bei che mirar soglio, spenti. 

Leopardi, nelle Operette morali, nel dialogo di Malambruno e di Farfarello, sottolinea come la felicità sia del tutto inattingibile per l’uomo, anche per un solo momento. 

Malambruno. Sta bene. Tu m’hai da contentare d’un desiderio.

Farfarello. Sarai servito. Che vuoi? nobiltà maggiore di quella degli Atridi?

Malambruno. No.

Farfarello. Più ricchezze di quelle che si troveranno nella città di Manoa quando sarà scoperta?

Malambruno. No.

Farfarello. Un impero grande come quello che dicono che Carlo quinto si sognasse una notte?

Malambruno. No.

Farfarello. Recare alle tue voglie una donna più salvatica di Penelope?

Malambruno. No. Ti par egli che a cotesto ci bisognasse il diavolo?

Farfarello. Onori e buona fortuna così ribaldo come sei?

Malambruno. Piuttosto mi bisognerebbe il diavolo se volessi il contrario.

Farfarello. In fine, che mi comandi?

Malambruno. Fammi felice per un momento di tempo.Farfarello. Non posso.

Malambruno. Come non puoi?

Farfarello. Ti giuro in coscienza che non posso.

Malambruno. In coscienza di demonio da bene.

Farfarello. Sì certo. Fa conto che vi sia de’ diavoli da bene come v’è degli uomini.

Malambruno. Ma tu fa conto che io t’appicco qui per la coda a una di queste travi, se tu non mi ubbidisci subito senza più parole.

Farfarello. Tu mi puoi meglio ammazzare, che non io contentarti di quello che tu domandi.

Malambruno. Dunque ritorna tu col mal anno, e venga Belzebù in persona.

Farfarello. Se anco viene Belzebù con tutta la Giudecca e tutte le Bolge, non potrà farti felice né te né altri della tua specie, più che abbia potuto io.

Malambruno. Né anche per un momento solo?

Farfarello. Tanto è possibile per un momento, anzi per la metà di un momento, e per la millesima parte; quanto per tutta la vita.

Malambruno. Ma non potendo farmi felice in nessuna maniera, ti basta l’animo almeno di liberarmi dall’infelicità?

Farfarello. Se tu puoi fare di non amarti supremamente.

Malambruno. Cotesto lo potrò dopo morto.

Farfarello. Ma in vita non lo può nessun animale: perché la vostra natura vi comporterebbe prima qualunque altra cosa, che questa.

Malambruno. Così è. 

Tempo in De Chirico: l’enigma dell’ora 

Considerato il fondatore della pittura metafisica,  L’enigma dell’ora di Giorgio De Chirico (1911) si colloca nell’ambito della serie delle opere “Piazze d’Italia”. In questi luoghi metafisici dell’assenza compaiono le enigmatiche figure di cui non è possibile cogliere i rapporti che li legano, se pure vi sono: una donna di spalle in primo piano, un uomo nella seconda arcata di destra e una terza persona che è affacciata al primo piano. Si tratta di una ambientazione frequente in De Chirico. In questo ambiente urbano desolato, entro le forme consuete del quotidiano, l’architettura della stazione, l’orologio, sembrano esteriorizzarsi le inquietudini più profonde dell’animo umano: l’angoscia, la solitudine, l’incomunicabilità che abita le figure del dipinto. Queste tre figure umane le troviamo rappresentate in luce, in penombra e in controluce. La sua è quindi una rappresentazione onirica della realtà. De Chirico ci fa intendere che la realtà è un’enigma: l’orologio che segna un’ora contrasta con le ombre lunghe che le tre figure iniziano a proiettare al calare della sera, per cui non c’è corrispondenza tra ll tempo scandito e misurabile dal congegno meccanico e quello vissuto, psicologico e dell’inconscio. Le lancette potrebbero essere anche guaste, ma questa sospensione del tempo è una sospensione dal tempo, un tempo senza tempo, interiore, metafisico, inconscio che parla il linguaggio segreto dell’anima. 

Il tempo in Schopenhauer 

Così scrive il filosofo di Danzica a proposito del nostro rapporto col tempo in “Parerga e Paralipomena”, una sorta di supplemento esplicativo alla sua opera principale “Il mondo come volontà e rappresentazione”. “Durante tutta quanta la nostra vita noi possediamo sempre il solo presente, e nulla di più. Ciò che dà una differenza alla nostra vita è semplicemente il vedere da principio un lungo avvenire dinanzi a noi, e verso la fine un lungo passato dietro di noi; nostro carattere, passa attraverso ad alcune note di modificazioni, da cui ogni volta deriva una nuova colorazione del presente”. 

Tempo in Buzzati, “Il deserto dei tartari” 

Nel “Deserto dei Tartari” il tempo è vissuto dal protagonista del romanzo, Giovanni Drogo, quale proiezione di un’attesa, sempre più angosciosa col passare degli anni, di un qualcosa che non arriva mai: i Tartari. Soltanto l’arrivo di questo esercito nemico darà finalmente senso alla vita del tenente Giovanni Drogo e di quanti, che come lui si ostinano a trascorrere il fiore di giovinezza e l’intera vita tra le mure inospitali della fortezza. La grande occasione arriverà per Drogo, ma non sarà quella che ha atteso tutta la vita. Quando finalmente i tartari giungeranno alla fortezza Bastiani, lui sarà malato, costretto in un letto e il suo superiore lo congederà. Giovanni Drogo combatterà la sua battaglia più dura e silenziosa lontano dai clamori della battaglia, solo e malato all’interno di una inospitale locanda, tra gente straniera, senza il conforto degli affetti familiari. Drogo solo nella stanza affronterà il nemico invisibile, la morte, che avanza con i suoi passi silenziosi, ma immerso nella penombra troverà perfino il tempo di volgere lo sguardo alla sua ultima porzione di stelle e sorridere anche. Lo scorrere del tempo si è fermato per Giovanni Drogo, lei è giunta.

Così Buzzati racconta la fuga irreparabile del tempo:

“Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il fiume dell’orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l’una sull’altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire”.

Marco Troisi

Redazione
Redazione
Giuseppe D’Alto: classe 1972, giornalista professionista dall’ottobre 2001. Ha iniziato, spinto dalla passione per lo sport, la gavetta con il quotidiano Cronache del Mezzogiorno dal 1995 e per oltre 20 anni è stato uno dei punti di riferimento del quotidiano salernitano che ha lasciato nel 2016.Nel mezzo tante collaborazioni con quotidiani e periodici nazionali e locali. Oltre il calcio e gli altri sport, ha seguito per diversi anni la cronaca giudiziaria e quella locale non disdegnando le vicende di spettacolo e tv.

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