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Elogio e senso dell’attesa in letteratura

Nei tempi moderni l’attesa figura come quegli oggetti smarriti di cui dovremmo chiedere la restituzione. Si perché l’attesa che ci sembra una negazione del tempo, un non-tempo, è in realtà un tempo differito, dilatato. Viene difficile comprenderne il senso in un’epoca, quale quella attuale, in cui tutto avviene in tempo reale, in diretta live, al tempo presente e non c’è altro tempo. Siamo fagocitati in questo limbo di eterno presente. In questi tempi moderni tutto scorre veloce in un indifferenziato e solidificato presente.

A promuovere questo senso del tempo senza attesa sono gli strumenti tecnologici di cui ci serviamo ogni giorno, ad esempio i social: inviamo una email e ci allarmiamo se il destinatario del nostro messaggio tarda a rispondere, su Whatsapp quando il nostro contatto legge i messaggi e non risponde in tempi brevi ci chiediamo irritati: perché non risponde? Si potrebbe dire quindi che la tecnologia ha abolito o comunque ridotto grandemente il tempo dell’attesa. Vi è poi l’attesa connessa ai servizi che però non dovrebbe, come purtroppo spesso accade, superare i limiti della decenza. Basti pensare al messaggio stereotipo si prega di attendere, che ci viene ripetuto al cellulare o se siamo in una sala d’aspetto. In una società in cui il tempo è rigidamente scansionato è evidente che il tempo che perdiamo nel traffico o l’attesa del tram alla fermata è un tempo sottratto in quanto inutile e insignificante.

Quando ci troviamo in coda agli sportelli, in fila al supermercato, viviamo un tempo d’attesa che è vuoto di senso, un tempo morto, perduto che non ci verrà mai più restituito, per cui genera irritazione. Quel si prega di attendere fa appello alla pazienza di chi attende, ma al giorno d’oggi chi attende ha ancora pazienza? D’altronde l’attendere implica la pazienza, come ben sa il paziente che è tale per definizione, in attesa di una visita medica in una sala d’aspetto. L’attendere ha anche una sua misura varcata la quale chi fa attendere dimostra d’essere poco educato. Aspettiamo anche prima di un colloquio di lavoro e si sa che l’attendere, fare anticamera, è un suggello proprio del potere che non ha fretta e non ha tempo, al contrario di chi deve chiedere qualcosa e quindi bussa a una porta. 

Attendere e aspettare: due modi differenti di intendere l’attesa

La parola attendere si differenzia dal semplice aspettare, attendere in effetti significa andare verso, rivolgere l’animo verso qualcosa, aspettare si colloca invece in una dimensione passiva che non implica l’attiva partecipazione di colui che aspetta. L’attesa elimina l’orizzonte del presente proiettata com’è nel futuro, in questo evento del futuro che si attende o si teme. Nell’attesa anticipiamo il futuro obliterando il presente, che quindi in questo modo si svuota di significato. L’attesa abolisce la durata. Senza attesa e senza speranza non c’è futuro. 

Siamo sempre in attesa di qualcosa. Chi di noi non è in attesa di qualcosa? di una notizia, un lavoro, un amore, una risposta, una svolta per la propria vita. C’è il tempo dell’attesa di chi viaggia, di chi attende il responso di un esame medico, di chi si interroga in attesa di una risposta alle proprie domande. Tutta la vita potremmo dire che è attesa di qualcosa. In questo senso l’attesa assomiglia molto a una preghiera laica, allo sperare che avvenga ciò che desideriamo. D’altro canto l’attesa ci pone anche in ascolto di noi stessi. L’attesa naturalmente ha a che fare col tempo, col tempo soggettivo e quindi può espandersi e dilatarsi, è un tempo soggettivo che non ha rapporto con lo scorrere cronologico entro rigidi e delimitati confini del tempo segnato sulle lancette degli orologi. Visto così, il tempo dell’attesa non è un tempo morto, ma un tempo ricco di significato, non un tempo assente perso nei rivoli della quotidianità. Il tempo dell’attesa può scivolare nella noia. L’attesa che viviamo oggi è invece una attesa nevrotica che nasce dall’accelerazione delle nostre vite, non tolleriamo ritardi, per cui è un’attesa di transizione che va verso, ma non è un’attesa di significato.

Questa accelerazione deriva dalla tecnica e dal modo in cui viviamo la vita che concede poco tempo alla riflessione. Il tema dell’attesa, e non potrebbe essere altrimenti, è molto presente in letteratura. Andiamo a ripercorrerlo prendendo in esame alcuni esempi tratti dalle opere letterarie. 

Penelope, Odissea 

Esempio di paziente attesa è quello di Penelope che attende per vent’anni che Ulisse torni dalla guerra di Troia. La moglie del re di Itaca con astuzia riuscirà a tenere lontani i pretendenti che si fanno sempre più insistenti. Al giorno d’oggi rincresce constatare che le Penelope sono piuttosto rare, i matrimoni hanno orizzonti molto più ristretti. 

Il sabato del villaggio, Leopardi 

Nel sabato del villaggio, Leopardi ci dice che tutto il bene del mondo è nell’attesa più che nel suo compimento e avveramento. L’attesa ammanta ciò che attendiamo di tutte le letizie che ci figuriamo e che fatalmente all’atto di incontro con la realtà ci deluderanno. Leopardi ci dice che la felicità è possibile solo nell’attesa e quindi nel futuro. Così la giovinetta che il sabato si agghinda per il dì di festa, quando verrà la domenica si accorge che le ore trascorreranno non nella letizia che pure aveva atteso, ma nella noia e sarà molto ben diversa da quanto si era immaginato. Quando l’attesa sarà colmata, la domenica ci deluderà e penseremo invece alla settimana che subentra. Ma c’è un altro testo del sommo poeta di Recanati che getta luce sul nostro tema. Ed è una delle Operette morali, Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere, in cui l’anno nuovo, almeno per qualche ora, instilla nel cuore dell’uomo l’attesa di nuove speranze, occasione di gioie, pur conoscendo che l’anno passato e la vita intera ne è stata avara. L’ignoranza del futuro schiude novelle speranze. “Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura”.  

Venditore Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

Passeggere Almanacchi per l’anno nuovo? Venditore Si signore.

Passeggere Credete che sarà felice quest’anno nuovo?

Venditore Oh illustrissimo si, certo.

Passeggere

Come quest’anno passato?

Venditore Più più assai.

Passeggere Come quello di là?

Venditore Più più, illustrissimo.

Passeggere

Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

Venditore Signor no, non mi piacerebbe.

Passeggere Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

Venditore Saranno vent’anni, illustrissimo.

Passeggere A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

Venditore Io? non saprei.

Passeggere Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

Venditore No in verità, illustrissimo.

Passeggere E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

Venditore Cotesto si sa.

Passeggere Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?

Venditore Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.

Passeggere Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?

Venditore Cotesto non vorrei.

Passeggere Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?

Venditore Lo credo cotesto.

Passeggere Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?

Venditore Signor no davvero, non tornerei. Passeggere Oh che vita vorreste voi dunque?

Venditore Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

Passeggere Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

Venditore Appunto.

Passeggere Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?

Venditore Speriamo.

Passeggere Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.

Venditore Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.

Passeggere Ecco trenta soldi.

Venditore Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. 

Montale, gloria del disteso mezzogiorno 

Questa poesia è presente nella raccolta “Ossi di seppia” pubblicata nel 1925. In un giorno afoso l’attesa del temporale non è altro che l’attesa, il differimento di una gioia futura: “Ma in attendere è gioia più compita”. 

Gloria del disteso mezzogiorno

quand’ombra non rendono gli alberi,

e più e più si mostrano d’attorno

per troppa luce, le parvenze, falbe.il sole, in alto, – e un secco greto.

Il mio giorno non è dunque passato:

l’ora piú bella è di là dal muretto

che rinchiude in un occaso scialbato. L’arsura, in giro; un martin pescatore

volteggia s’una reliquia di vita.

La buona pioggia è di là dallo squallore,

ma in attendere è gioia più compita.

Il deserto dei tartari, Buzzati: il senso dell’attesa

“Da qualche tempo infatti un’ansia, che lui non sapeva capire, lo inseguiva senza riposo: l’impressione di non fare in tempo, che qualche cosa di importante sarebbe successo e l’avrebbe colto di sorpresa.

[…]

Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandiva sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!” si vorrebbe gridare, ma si capisce ch’è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai.”“Oh è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava. Anche vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare.”

Il romanzo Il deserto dei tartari viene pubblicato nel 1940 da Longanesi che suggerì di modificare il titolo originario “La fortezza” per evitare ogni riferimento alla situazione bellica di allora. L’attesa in questo romanzo dello scrittore bellunese diviene palpabile, è come una nebbia non sfuggente ed amorfa, ma solida e opprimente che si posa e pesa sul suo protagonista, il tenente Giovanni Drogo, ed abita ogni più riposto angolo e meandro della stessa Fortezza. Drogo subisce sin dal primo momento, lo strano incanto che promana dalla Fortezza militare benchè abbia un aspetto dimesso e disadorno e sia in disarmo da decenni, avamposto dalle mura giallognole che si affaccia su un deserto da cui tutti sperano che prima o poi possano sortire i Tartari per avere la grande occasione. Verranno? Questa domanda consuma e scandisce l’attesa di Drogo e dei suoi colleghi per decenni, solo per questa segreta attesa si ostinano a condurre una vita monotona e rigida scandita dai regolamenti militari. Sì alla fine i tartari verranno, ma Drogo non avrà modo di affrontarli perché si scoprirà malato e il suo superiore lo congederà. Ma era davvero l’arrivo dei Tartari la grande occasione perduta di Drogo?

Ancora non lo sa, ma nella carrozza cigolante che lo condurrà in una oscura locanda avrà la sua grande occasione che ha atteso tutta la vita. In una dimessa locanda lontano da casa, lontano dal suo mondo, lontano dagli affetti, Drogo affronterà non un nemico in carne d’ossa, che può essere ferito e ucciso, che si può vedere, ma colei che ci aspetta da sempre e che un giorno prima o poi dovremo incontrare. Giovanni accompagnato dal suo attendente nella locanda, sale al piano di sopra in camera. Mentre gli giungono delle note di una canzone che porta allegria agli uomini, lui è solo nella locanda, sente che il momento si avvicina. I suoi passi si avvicinano. Ma Drogo mostrerà intatto, benché malato, il suo valore di soldato dinanzi non a una battaglia, ma a una tenzone segreta con questa misteriosa visitatrice. Sente dei passi, Lei è entrata e si avvicina. Si aggiusta il colletto dell’uniforme e dà uno sguardo fuori dalla finestra per l’ultima sua porzione di stelle e benché nessuno lo veda trova perfino il tempo di sorridere. Il cammino di Drogo finisce con una nota di eroismo, la grande occasione è giunta e Drogo saprà farsi valere.

Roland Barthes, l’innamorato: uno che aspetta 

“La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta. […] Fare aspettare: prerogativa costante di qualsiasi potere, “passatempo millenario dell’umanità”. Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, 1977 

Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupery: l’attesa felice dell’innamorato 

“Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…”. 

Kafka, il messaggio dell’imperatore 

“L’imperatore ha mandato a te, a un singolo, a un misero suddito (…) proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte”.

 Il messaggero non può eseguire il suo compito, troppi e insormontabili gli ostacoli che gli si frappongono: il palazzo è sterminato, innumerevoli i corridoi e i cortili. Per uscire dall’immenso palazzo il messaggero non riuscirà mai a coprire la distanza necessaria perché è come se si moltiplicasse continuamente nel tempo e nello spazio. Forse l’imperatore ha atteso troppo per comunicare il suo messaggio che non giungerà mai a destinazione. Eppure dinanzi a questa impossibilità di comunicare e di ricevere il messaggio da parte dell’ imperatore il racconto si chiude con una nota spiazzante: “Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera”. Forse il messaggio che non può essere recato dall’araldo dell’imperatore può giungere per vie incognite che la razionalità non conosce. Come il suddito, forse anche noi siamo destinatari di un misterioso messaggio da parte di un incognito mittente che non ci raggiungerà mai, ma alla sera possiamo sognarne.

La fine dell’attesa: il disvelamento del senso 

Forse un giorno l’attesa, nel suo compimento ultimo, ci rivelerà se la vita ha senso.

Marco Troisi

Redazione
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Giuseppe D’Alto: classe 1972, giornalista professionista dall’ottobre 2001. Ha iniziato, spinto dalla passione per lo sport, la gavetta con il quotidiano Cronache del Mezzogiorno dal 1995 e per oltre 20 anni è stato uno dei punti di riferimento del quotidiano salernitano che ha lasciato nel 2016.Nel mezzo tante collaborazioni con quotidiani e periodici nazionali e locali. Oltre il calcio e gli altri sport, ha seguito per diversi anni la cronaca giudiziaria e quella locale non disdegnando le vicende di spettacolo e tv.

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