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Tra i business che più hanno cambiato il quadro dell’economia italiana negli ultimi anni, c’è senza dubbio quello della cannabis light cannabis legale. Il consumo di questa pianta fuori dai percorsi terapeutici è una relativa novità per il nostro Paese. Non dimentichiamo infatti che la Legge 242/2016, testo normativo che ha cambiato radicalmente il modo di approcciarsi alla cannabis light in Italia, è infatti entrata in vigore nel gennaio del 2017.

Nelle prossime righe, vediamo assieme i dettagli principali di questa legge, un testo che, seppur ricco di portata innovativa, ha ancora dei forti limiti almeno per quanto riguarda la gestione della canapa fuori da situazioni come la coltivazione per scopi industriali.

Legge 242/2016: le basi

Partiamo dalle basi del quadro normativo relativo alla cannabis light in Italia, facendo presente che l’articolo 1 della legge sopra ricordata fa chiarezza sulle varietà di canapa che possono essere coltivate nel nostro Paese.

Si parla nello specifico delle varietà incluse nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole. In questo novero è possibile trovare diverse tipologie di cannabis sativa originarie dell’Italia e non solo (sono presenti anche piante provenienti da Paesi come la Francia e l’Ungheria).

Nei casi in cui si ha a che fare con piante certificate, la coltivazione da parte del produttore è consentita senza bisogno di richiedere autorizzazioni. Nonostante ciò, gli esperti del settore raccomandano di procedere comunque all’autodenuncia, soprattutto se si ha intenzione di produrre infiorescenze (attenzione, si tratta di una raccomandazione e non di un obbligo normativo).

Quanto abbiamo appena specificato in merito alla liceità della coltivazione senza autorizzazione è espresso nel secondo articolo della Legge 242/2016. In questo secondo step del testo normativo, si parla anche dei prodotti che possono essere ottenuti a partire dalla cannabis light.

Nell’elenco in questione è possibile trovare i cosmetici, ma anche il materiale destinato alle opere di bioingegneria, ambito che, negli ultimi tempi, ha sfruttato tantissimo i vantaggi della canapa in quanto pianta sostenibile e resiliente. Proseguendo con l’elenco dei prodotti che possono essere ottenuti a partire dalla cannabis light, troviamo, tra gli altri, anche gli alimenti.

Contenuto di THC

Un capitolo indubbiamente importante da considerare quando si discute della legislazione italiana relativa alla cannabis light riguarda il contenuto di THC ammesso dalla normativa vigente. Il principio attivo in questione, noto per i suoi effetti psicoattivi, non deve superare lo 0,2%.

Nell’eventualità di un controllo da parte dell’autorità, il produttore che supera questa soglia ma rimane entro lo 0,6% non va incontro a sanzioni.

Cosa è successo dopo il 2017

La normativa relativa alla cannabis light in Italia presenta, oggi come oggi, diversi pecche che non sono state risolte dal 2017 in poi. Da quando è entrata in vigore la Legge 242/2016, poco è cambiato e, più volte, il business della canapa light è stato messo a forte rischio.

A dimostrazione di ciò è possibile citare il decreto, poi ritirato, con cui il Ministero della Salute guidato da Roberto Speranza aveva incluso il CBD ottenuto a partire dalle coltivazioni di cannabis light – parliamo di un principio attivo che, a differenza del THC, non provoca effetti psicoattivi – nel novero delle sostanze stupefacenti.

Il 28 ottobre 2020, però, il titolare del sopra citato dicastero ha firmato un altro decreto con lo scopo di annullare il precedente e affermando l’intenzione di convocare un tavolo di lavoro per iniziare una discussione “sistematica e complessiva” coadiuvata dagli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità e da quelli del Consiglio Superiore di Sanità. L’obiettivo? Valutare se gli effetti del CBD rimangono immutati nonostante la variazione delle quantità assunte.

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