Si proclamava “giustiziera dei tradimenti” e puniva uomini sconosciuti
Si faceva chiamare la “giustiziera dei tradimenti virtuali”.
Una donna di 55 anni, residente in Lombardia, è stata condannata dal tribunale di Prato a due anni e quattro mesi di reclusione per revenge porn, diffamazione, stalking e sostituzione di persona.
Accanto a lei, nella stessa aula, anche il figlio trentenne, riconosciuto come suo complice: costruiva i profili falsi con cui la madre adescava uomini sui social.
Per lui, la condanna è di un anno e otto mesi, con pena sospesa.
L’incredibile vicenda è stata ricostruita nel dettaglio dal Corriere Fiorentino e racconta una spirale ossessiva iniziata nel 2020, quando la donna aveva scelto come bersaglio un uomo mai conosciuto prima, un trentenne di Prato.
La trappola online: adescamento, chat erotiche e la vendetta
Secondo quanto emerso nel processo, la donna – da casa sua, nel Nord Italia – aveva creato un profilo falso su un social network fingendosi una giovane donna single.
Aveva adescato il trentenne pratese, avviando con lui uno scambio di messaggi erotici, fotografie e video.
Una relazione virtuale apparentemente senza conseguenze, fino al colpo di scena: la “giustiziera” ha raccolto tutto il materiale e lo ha inviato alla compagna dell’uomo, ai familiari, agli amici e persino ai colleghi di lavoro.
Non solo. Come emerso dagli atti, la 55enne avrebbe stampato le conversazioni e le spedite per raccomandata direttamente sul posto di lavoro della donna tradita, con l’intento dichiarato di “aprirele gli occhi”.
Un gesto che la difesa ha tentato di giustificare come “atto di denuncia morale”, ma che i giudici hanno invece qualificato come vendetta pornografica aggravata dalla diffusione a terzi di materiale privato.
Il ruolo del figlio: il complice tecnico dei falsi profili
Nel piano disturbato della madre, un ruolo chiave lo aveva il figlio, poco più che trentenne.
Secondo le indagini, era lui a realizzare i profili fake, a gestire gli account alternativi e a coordinare l’invio dei messaggi.
Un complice silenzioso ma costante, descritto in aula come “il braccio operativo della madre”.
La donna, secondo l’accusa, sceglieva le sue vittime casualmente, selezionandole su social network o chat. A suo dire, agiva per “difendere le donne dai tradimenti”, ma le sue azioni erano guidate da una pulsione di controllo e vendetta.
Dalla vendetta alla persecuzione: pedinamenti e ossessione
Dopo aver diffuso il materiale, la 55enne non si era fermata.
Non accettava che la coppia – nonostante la vergogna pubblica – non si fosse lasciata.
Così, aveva deciso di pedinare personalmente l’uomo, seguendolo in auto, fotografandolo, e costruendo un dossier di immagini e appunti per “dimostrare” nuove presunte infedeltà.
Una vera e propria ossessione, che secondo i giudici di Prato è diventata stalking, aggravato dalla reiterazione e dalla volontà di umiliare pubblicamente la vittima.
Gli investigatori hanno trovato decine di file archiviati, mappe, orari e fotografie scattate di nascosto.
Il tutto per “completare” la sua vendetta morale.
Le indagini e la denuncia della coppia
L’incubo per la coppia pratese è durato mesi.
Il giovane e la sua compagna – oggi non più insieme – si sono rivolti alla polizia postale, denunciando le continue minacce, i pedinamenti e la diffusione di materiale privato.
Da lì sono partite indagini complesse, coordinate dalla procura di Prato, che hanno portato all’identificazione della donna e del figlio.
Gli agenti hanno sequestrato computer, telefoni e chiavette USB contenenti prove schiaccianti: chat salvate, indirizzi IP, bozze di messaggi e fotografie delle vittime.
La sentenza: due condanne e una lezione di giustizia
Il processo si è concluso nei giorni scorsi con una doppia condanna.
La donna è stata riconosciuta colpevole di tutti i capi d’accusa:
- revenge porn,
- diffamazione,
- stalking,
- sostituzione di persona.
Per il figlio, invece, la responsabilità è stata limitata agli ultimi due reati.
Entrambi hanno ottenuto la sospensione condizionale della pena, ma il giudice ha disposto l’interdizione dai social e il divieto di contatto con la vittima e i familiari.
Il tribunale ha sottolineato nella motivazione che la donna “non agiva per vendicare un torto subito, ma per un delirio di giustizia privata”, e che il suo comportamento “ha distrutto la vita di persone innocenti con crudeltà e premeditazione”.

