Giovanni GaleoneGiovanni Galeone

Chi era davvero Giovanni Galeone?

«Per insegnare il calcio sono tra i più bravi. Per stare bene col mondo forse no». Una frase che sembra scritta per lui, sospesa tra mito e realtà, come tanti capitoli della vita di Giovanni Galeone, morto a Udine a 84 anni. Allenatore senza trofei, eppure vincente nell’immaginario collettivo. Un uomo che ha attraversato il calcio italiano dagli anni ’80 ai primi Duemila con una sigaretta tra le dita, un bicchiere di champagne nello spogliatoio e la certezza che il calcio non fosse solo corsa e sudore, ma estetica, libertà e contraddizione.

Nato a Napoli nel 1941, ma friulano nell’anima per quel trasferimento da bambino a Trieste, Galeone è stato marinaio del pallone prima ancora che allenatore. Da calciatore ha vissuto i campi minori con Udinese, Arezzo, Avellino, Entella. Poi la panchina, la vera vita: Pordenone, Spal, Como, Ancona. Ma è a Napoli, Perugia, Udinese e soprattutto Pescara – dove lo chiamavano “il Profeta” – che ha lasciato un segno indelebile.


Il profeta che non vinse nulla ma cambiò tutto

Niente scudetti, nessuna coppa. Ma quattro promozioni in Serie A: due con il Pescara (1986-87, 1991-92), una con l’Udinese (1994-95), una con il Perugia (1995-96). A Napoli fu travolto dalla stagione disastrosa del 1997-98, con la retrocessione in B. Anni dopo lo ammise con sincerità brutale: «Andare dove neanche Mazzone era riuscito è stata follia. Presunzione».

Eppure nessuno ricorda Galeone per ciò che vinse. Ma per ciò che osò. Il suo calcio era un manifesto: 4-3-3, attacco a oltranza, prendere gol ma farne uno in più. «Per me il 4-3-3 è l’unico modulo che ha senso. Per giocare bisogna divertirsi». In un’Italia calcistica fatta di catenacci e sudore, lui portava bellezza e rischio. Il pubblico lo adorava: sapeva che, comunque andasse, si sarebbe divertito.


Sigarette, champagne e verità scomode: l’eresia secondo Galeone

Nel calcio delle diete, delle statistiche e delle notti a letto presto, lui arrivava con pizzette e champagne a fine allenamento. Fumava nervosamente in panchina mentre i suoi giocatori correvano. E denunciava, senza filtri, che da calciatore gli avevano chiesto di prendere «qualsiasi tipo di farmaco». Anticonformista per natura, non per posa.

Ha fatto storia la risposta a Luciano Gaucci, presidente vulcanico del Perugia, che gli chiedeva di controllare la vita privata dei calciatori: «Il sesso prima delle partite? Non sono stato capace di organizzare il mio, figuriamoci quello degli altri».


Maestri e allievi: Allegri, Gasperini, Giampaolo e il calcio moderno

Il suo calcio non è rimasto solo teoria. Ha plasmato tecnici e uomini. Massimiliano Allegri, il più fedele dei suoi allievi, lo ha definito «maestro vero» e lo ha visitato in ospedale a Udine poche settimane prima della fine. Giampiero Gasperini e Marco Giampaolo gli devono molto. Rino Gattuso, a 18 anni, fu lanciato da lui al Perugia: «Con Galeone ho capito cosa vuol dire giocare per divertirsi e soffrire insieme».

Galeone aveva la capacità di vedere il talento dove altri vedevano confusione. Come Maradona che lo voleva a Napoli. Due uomini lontani ma simili: insofferenti alle regole, innamorati del genio.


L’ultimo marinaio del pallone

Chi lo ha conosciuto lo descrive come un uomo libero, a volte troppo. «Dovrei imparare a stare meglio col mondo», diceva. Ma forse è stato proprio il contrario: è stato il mondo del calcio a non sapere stare dietro a lui. Il soprannome “marinaio” non era casuale: per tutta la vita ha navigato tra città, panchine, promozioni, esoneri, sigarette e idee. Si è fermato solo nel 2013, quando ha detto basta.

Il calcio degli algoritmi, dei droni e dei GPS oggi fatica a ricordare che una volta c’erano uomini come lui. Che si poteva essere allenatori senza computer, si poteva vincere perdendo, si poteva diventare immortali senza alzare trofei.

Giovanni Galeone se n’è andato così: senza rumore, senza retorica, come una sigaretta che si spegne piano. Ma il suo 4-3-3 continuerà a vivere ogni volta che una squadra attaccherà con coraggio. Ogni volta che un allenatore oserà. Ogni volta che il calcio ricorderà di essere, prima di tutto, libertà.

Di Redazione

Giuseppe D’Alto: classe 1972, giornalista professionista dall’ottobre 2001. Ha iniziato, spinto dalla passione per lo sport, la gavetta con il quotidiano Cronache del Mezzogiorno dal 1995 e per oltre 20 anni è stato uno dei punti di riferimento del quotidiano salernitano che ha lasciato nel 2016.Nel mezzo tante collaborazioni con quotidiani e periodici nazionali e locali. Oltre il calcio e gli altri sport, ha seguito per diversi anni la cronaca giudiziaria e quella locale non disdegnando le vicende di spettacolo e tv.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *