«Non sono più una madre: solo accuse e silenzi»
Corinne Clery entra in studio a Verissimo, occhi fissi, voce ferma. A distanza di oltre otto anni dall’ultima contatto con il figlio Alexandre Wayaffe, nella puntata del 6 dicembre ammette ciò che per lungo tempo ha tentato di contenere nel privato: «La frattura è totale. Non ho più paura di dirlo». Da mesi, racconta, non ha notizie delle nipoti e non riceve neppure un messaggio. «Non mi sento più mamma ma nonna distante. Non mi sento più parte della loro vita.»
La denuncia per diffamazione, spiegata con tono amaro, è la goccia che ha trasformato il silenzio in una battaglia legale: «Non è vero ciò che mi viene attribuito. Non ho parlato di violenze fisiche. Le mie sono state altre: psicologiche, continue, corrosive». La puntualizzazione non è solo difensiva, è identitaria.
Il passato, i sacrifici e il casale diventato un nodo irrisolto
«Tutta la mia vita l’ho costruita mettendolo al centro», racconta. La carriera, gli amori, la scelta di crescere il figlio da sola, il peso di un’educazione senza reti, senza pause. Poi il punto di rottura, negli anni in cui la madre diventa, nelle sue parole, un bersaglio. «Ogni mia scelta era sbagliata. Non potevo più parlare, respirare, esistere senza contraddire qualcosa.» – ha aggiunto Corinne Clery.
Il casale, simbolo affettivo e patrimoniale, si trasforma nella miccia. La donazione, concessa «per amore, per famiglia», torna indietro come un bumerang. Lei scopre la vendita della nuda proprietà da terzi, in un bar, casualmente. Da lì l’allontanamento definitivo, l’ingresso degli avvocati, la chiusura. Ora l’attrice ha intenzione di dar battaglia per riprenderselo.
L’etichetta del narcisismo e il dolore senza sceneggiatura
Solo negli ultimi anni, afferma, ha trovato una definizione clinica alle dinamiche vissute. «Non esistevano parole. Non si parlava di disturbo narcisistico. Non capivo. Poi lo schema si è ricomposto: svalutazione, controllo, isolamento.» Non cerca compatimento, chiede riconoscimento. E nel dirlo non c’è vendetta, solo lucidità.
«Ho ricevuto l’abbraccio silenzioso di tante madri. Messaggi privati, confessioni identiche. Famiglie intere spezzate da relazioni in cui l’amore diventa possesso e contabilità.» La sua non è una resa pubblica, ma un atto di autodifesa, quasi di igiene affettiva.
Una madre senza figlio, ma senza più vergogna
La frase che la definisce, più di ogni altra: «Non mi vergogno più». È questo lo spartiacque. Non cerca più redenzione, non pretende spiegazioni. «Avrei voluto il lieto fine. La famiglia perfetta, i Natali pieni, le risate. E invece è rimasto un muro.» Oggi, dice, la guarigione passa attraverso la sottrazione. Il dolore, in fondo, è già stato tutto vissuto.

