Perché la Cassazione ha assolto definitivamente Alex Cotoia?
La Corte di Cassazione ha posto la parola fine a una delle vicende giudiziarie più controverse degli ultimi anni. Con una sentenza della Quinta sezione penale, i giudici hanno dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale di Torino e confermato l’assoluzione di Alex Cotoia, imputato per l’omicidio volontario del padre Giuseppe Pompa, avvenuto il 30 aprile 2020 a Collegno (Torino) durante una violenta lite familiare.
Alex ha sempre sostenuto di aver agito per difendere la madre, aggredita e minacciata dal marito in un contesto di violenze familiari ripetute e noto da anni. La Cassazione ha accolto questa ricostruzione, riconoscendo la legittima difesa putativa, ossia la convinzione dell’imputato di trovarsi in una situazione di pericolo imminente, tale da giustificare la sua reazione estrema, pur se fondata su una percezione soggettiva.
Cosa è accaduto quella notte del 30 aprile 2020?
La tragedia si consumò nell’appartamento di famiglia a Collegno, in provincia di Torino. Quella non era una lite come le altre: secondo gli atti processuali, in casa si respirava un clima di tensione costante, fatto di urla, minacce e violenze. Giuseppe Pompa, 52 anni, è stato descritto dai giudici come un uomo dominato da una gelosia patologica e da un continuo desiderio di controllo sulla sua famiglia.
Quella sera avrebbe aggredito verbalmente e fisicamente la moglie, scatenando l’intervento del figlio Alex. Durante il confronto, il giovane – allora 22enne – ha afferrato un coltello da cucina e colpito il padre 34 volte. Una sequenza di colpi che all’inizio aveva convinto la Procura a insistere per il reato di omicidio volontario, contestando un eccesso di violenza.
Perché si parla di legittima difesa putativa?
Nelle motivazioni della sentenza, la Corte d’Assise d’Appello di Torino – poi confermata in Cassazione – ha scritto che Alex agì nel terrore di vedere la madre uccisa davanti ai suoi occhi. La casa era da tempo teatro di “una pesantissima sopraffazione del marito nei confronti della moglie”, un contesto familiare “drammatico” degenerato quella notte in un’escalation incontrollabile.
Scrivono i giudici: «Pur volendo ritenere che Alex abbia agito nell’erronea convinzione che il padre volesse armarsi di un coltello, vi sono elementi concreti idonei a indurre nell’imputato la ragionevole persuasione di trovarsi in pericolo».
La Suprema Corte ha quindi riconosciuto che Alex reagì per difendersi e per proteggere la madre, non mosso da odio o vendetta, ma dal timore di un pericolo reale e immediato. Per questo ha stabilito che «si è difeso fino a quando ha constatato che il padre era inerme e non costituiva più un pericolo».
La battaglia legale e il cambio di cognome
Il percorso giudiziario è stato lungo e complesso. In primo grado Alex era stato condannato a 6 anni e 2 mesi con l’accusa di eccesso colposo di legittima difesa. Poi la sentenza è stata annullata dalla Cassazione e il processo è tornato in appello, dove era stata pronunciata l’assoluzione. Oggi quella decisione è definitiva.
Nel frattempo il giovane – segnato da una vicenda che lo ha travolto a livello psicologico e personale – ha ottenuto anche il cambio di cognome, prendendo le distanze dalla figura paterna e provando a ricostruire la propria vita.
Cosa significa questa sentenza?
Questa sentenza avrà un peso rilevante nelle future valutazioni di violenza domestica e dinamiche di famiglia. La Cassazione ha di fatto riconosciuto che, in contesti di violenza endofamiliare prolungata, la percezione di pericolo può essere esasperata e incidere in modo decisivo sulla reazione di chi interviene.
Per Alex ora si apre una nuova pagina. Assolto, ma segnato per sempre da una storia di sangue e dolore che nessuna sentenza potrà cancellare.

