Manuel Mastrapasqua e Daniele RezzaManuel Mastrapasqua e Daniele Rezza

Una sentenza che fa discutere

Il Tribunale di Milano ha depositato le motivazioni della sentenza che condanna a 27 anni di carcere Daniele Rezza, oggi 20enne, per l’omicidio di Manuel Mastrapasqua, avvenuto l’11 ottobre 2024 a Rozzano. Un delitto feroce per la sua sproporzione: una vita spezzata per un paio di cuffiette dal valore di 14 euro.

Nelle 70 pagine depositate dalla presidente della Corte, Antonella Bertoja, emerge un quadro complesso: da un lato l’immaturità dell’imputato, riconosciuta come attenuante; dall’altro, il rifiuto di attribuire al contesto territoriale un ruolo determinante nella misura della pena.


L’aggressione e la fuga

La notte dell’omicidio, Rezza – allora diciannovenne – affrontò Mastrapasqua con l’intenzione di impossessarsi di un oggetto di poco valore. La colluttazione degenerò in un gesto estremo: un fendente al torace, fatale per la vittima.

Dopo la coltellata, Rezza si allontanò tra tentativi maldestri di fuga, fino alla consegna spontanea alla Polfer di Alessandria. Un comportamento definito dai giudici “sintomo di un percorso criminale ancora acerbo”, incapace di reggere il peso delle conseguenze del proprio gesto.


L’età come attenuante

La Corte ha riconosciuto alla giovane età dell’imputato un peso attenuante, sottolineando come il suo comportamento sia stato guidato da superficialità, adrenalina ed emotività più che da una struttura criminale consolidata.

A questo elemento si aggiungono la scelta di un processo abbreviato e la confessione definita “genuina”, elementi che hanno contribuito a determinare la pena finale.


La “bacchettata” alla Procura

Nonostante la pubblica accusa, rappresentata dalla pm Letizia Mocciaro, avesse chiesto 20 anni di reclusione senza aggravanti, i giudici hanno rigettato la richiesta di tenere in conto le “disagiate condizioni socio-familiari” di Rezza.

Secondo la Corte, tali condizioni non risultano provate e, soprattutto, non possono tradursi in un automatismo che colleghi la devianza criminale al luogo di provenienza.


“Rozzano non è un’attenuante”

Il passaggio più netto delle motivazioni riguarda proprio il rifiuto di trasformare Rozzano – periferia spesso associata a criminalità e degrado – in un fattore attenuante.

“L’applicazione delle attenuanti generiche non può dipendere dal luogo di residenza dell’imputato. Tale soluzione darebbe luogo a un odioso pregiudizio, in base al quale tutti gli abitanti del comune di Rozzano sarebbero maggiormente inclini alla delinquenza”, scrive la Corte.

Un principio che, nelle intenzioni dei giudici, tutela il diritto a essere giudicati come individui, e non come espressione di un contesto sociale.


Libero arbitrio e responsabilità individuale

Nelle motivazioni, la presidente Bertoja sottolinea che Rezza, pur fisiologicamente influenzato dal suo ambiente d’origine, resta “un cittadino dotato di libero arbitrio e di una personalità complessa”.

La Corte rifiuta dunque l’idea che il giovane sia una “mera proiezione del luogo” in cui è cresciuto, ribadendo che responsabilità e colpa non possono essere scaricate sul quartiere o sulla famiglia.


Famiglia “impotente e sottomessa”

Quanto al nucleo familiare di Rezza, i giudici lo descrivono come non conflittuale né violento, ma segnato da una dinamica di impotenza: genitori incapaci di opporsi al figlio, arrivati perfino a favorire i suoi tentativi di distruggere prove e di fuggire all’estero.

Un atteggiamento che, pur definito “deprecabile”, viene interpretato come espressione istintiva di protezione più che come fattore criminogeno.


Attenuanti e aggravanti

Alla fine, i giudici hanno bilanciato le attenuanti – età, confessione, rito abbreviato – con aggravanti decisive: l’uso dell’arma, l’approfittamento della minorata difesa della vittima e i futili motivi.

Circostanze che non vengono annullate dall’immaturità dell’imputato, ma che restano centrali nel valutare la gravità del gesto.


Una sentenza esemplare

La decisione del Tribunale di Milano va oltre il singolo caso giudiziario: si configura come un messaggio chiaro contro stereotipi e generalizzazioni. La giustizia, sottolinea la sentenza, deve rimanere ancorata alla responsabilità personale, non alle condizioni ambientali.

Una linea che, nel caso di Rozzano, intende riaffermare un principio fondamentale: non è il quartiere a determinare la colpa, ma le scelte individuali.

Di Redazione

Giuseppe D’Alto: classe 1972, giornalista professionista dall’ottobre 2001. Ha iniziato, spinto dalla passione per lo sport, la gavetta con il quotidiano Cronache del Mezzogiorno dal 1995 e per oltre 20 anni è stato uno dei punti di riferimento del quotidiano salernitano che ha lasciato nel 2016.Nel mezzo tante collaborazioni con quotidiani e periodici nazionali e locali. Oltre il calcio e gli altri sport, ha seguito per diversi anni la cronaca giudiziaria e quella locale non disdegnando le vicende di spettacolo e tv.

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