Il campione che non vuole più correre: la confessione che scuote l’atletica
Marcell Jacobs, l’uomo che ha riscritto la storia dello sport italiano nelle notti irripetibili di Tokyo, oggi confessa di aver perso ciò che per un atleta è più prezioso dell’oro: il desiderio. Non la velocità, non la tenuta fisica, non la potenza. La voglia. «Mi manca il primo passo, la voglia di andare in campo ad allenarmi», racconta in una lunga intervista in cui mette a nudo dubbi, esaurimento emotivo e un futuro che, all’improvviso, sembra meno definito. È una rivelazione spiazzante per chi lo ha visto trasformarsi in fulmine, icona, simbolo planetario dello sprint.
Non parla di stanchezza fisica, ma di una sensazione più pericolosa, quella del vuoto: «Non sento il richiamo della pista e mi preoccupa». La semifinale dello scorso Mondiale, chiusa in 10”16, è diventata più che un dato cronometrico, un messaggio: l’uomo più veloce del mondo può correre, ma non sa più se vuole farlo.
L’ombra di Los Angeles e l’idea del ritiro che non osa pronunciare
Jacobs non dà un addio, non annuncia uno stop, ma getta un’ombra che pesa più di una scelta definitiva. «Se vado avanti, non è per vincere gli Europei, ma per tirare dritto fino a Los Angeles 2028», dice, lasciando intendere che il piano, sul foglio, esiste ancora. Eppure, senza la scintilla, ogni traguardo diventa solo un esercizio di sopravvivenza agonistica.
Gli atleti spesso smettono quando il corpo cede. Jacobs oggi dice qualcosa di più serio: potrebbe smettere perché la mente non risponde più. Il campione che ha messo in fila i giganti dello sprint non vede più, davanti a sé, la pista come chiamata, ma come peso.
Rapporti incrinati: la frattura con la Fidal e il riferimento a Tamberi
Il disagio non è solo interiore. È anche istituzionale. Jacobs rivela di non essere più considerato “atleta di punta” dalla federazione, di aver ricevuto parametri aggiornati dopo Parigi e di aver scoperto, a parità di condizioni, trattamenti differenti verso altri. Il nome non lo pronuncia subito, ma aleggia: Gianmarco Tamberi, l’amico di quella notte irripetibile del doppio oro, l’uomo con cui ha condiviso non solo un podio ma un simbolo nazionale.
«Lui sa mantenere i rapporti, caratteristica che al presidente Mei piace. Io ho un altro carattere», ammette Jacobs, senza ostilità ma con lucidità. Non c’è rancore personale, ma c’è la sensazione di essere rimasto fuori dalla stanza dove si decide, si parla, si protegge.
Il caso spionaggio e il veleno che resta
La destabilizzazione emotiva, racconta, ha una causa precisa: l’inchiesta che ha coinvolto il fratello-manager di Filippo Tortu. Jacobs torna su quel dossier con toni durissimi: «Pagare qualcuno per frugare negli affari miei è inconcepibile». Non parla di resoconto sportivo, ma di intrusione personale, di sospetto sistemico. È lì che, ammette, si è incrinata la fiducia, più che il passo in pista.
Con Filippo, invece, nessun veleno: «Mi ha chiamato, ha avuto coraggio. L’imbarazzo è durato cinque minuti». Ma con l’ambiente, con il contesto, con l’intero sistema agonistico, i cinque minuti sembrano non essere mai passati.
Un atleta senza scintilla in un’Italia che corre
Il presidente Mei si dice stupito, quasi incredulo: «Non c’era ragione per un’intervista di quel genere». Eppure le parole non sono uno sfogo, ma un referto. L’atletica italiana vive un momento luminoso, da Battocletti a Furlani, e la narrazione collettiva sembra dire: il futuro c’è, anche senza Jacobs.
È proprio lì che l’assenza del campione diventa più pesante. L’Italia corre, vola, accumula medaglie. Lui, invece, si ferma. E confessa. Non la fatica, ma la mancanza di senso.

