La corte ha inflitto pene severe a Naiyahmi e Tai-Zamarai Yasharahyalah dopo che, nel dicembre 2022, il corpo del loro figlioletto Abiyah è stato rinvenuto sepolto nel giardino dell’abitazione dove la coppia aveva vissuto a Handsworth, Birmingham. La 43enne Naiyahmi è stata condannata a 19 anni e sei mesi, il marito 42enne a 24 anni; i giudici hanno ritenuto che la morte del bambino, avvenuta nel 2020, fosse il drammatico epilogo di negligenza prolungata e di scelte di vita che hanno anteposto credenze e pratiche alla cura del minore.
Le evidenze forensi: malnutrizione, fratture e segni di abbandono
Gli accertamenti medico-legali hanno descritto un quadro drammatico: il corpicino di Abiyah, quando fu riesumato, presentava segni di grave malnutrizione e di lungo periodo di deperimento — rachitismo, anemia, ritardo della crescita, fratture non consolidate e danni dentali molto estesi. I consulenti hanno sottolineato che anche qualora fosse intervenuta una malattia respiratoria, gli effetti della malnutrizione avrebbero giocato un ruolo determinante e non marginale nel determinare l’esito letale. Gli esperti in aula hanno ribadito che il bambino aveva subito danni da carenza nutritiva e che la cura medica era stata sostanzialmente negata.
Il contesto familiare: isolamento e adesione a un movimento di nicchia
Perché la famiglia si era allontanata?
Secondo le testimonianze raccolte nel processo e i racconti della famiglia d’origine, Naiyahmi e Tai avevano via via costruito una esistenza isolata, alimentando convinzioni riconducibili a un piccolo movimento definito in aula come Royal Ahayah’s Witness, che mescolava elementi di religiosità africana e pratiche new age. La coppia avrebbe adottato una dieta rigidamente vegana a base principalmente di frutta, noci e semi, e avrebbe rifiutato l’intervento della medicina convenzionale. Il marito, ex studente di genetica medica, si sarebbe autoproclamato capo di un “regno” immaginario, e la coppia avrebbe rivendicato uno stile di vita separato dalla società, fino ad arrivare a dichiarare la rinuncia alla cittadinanza.
Come veniva giustificata la gestione del bambino?
In aula i genitori hanno rigettato l’accusa di negligenza intenzionale, sostenendo che la morte fosse riconducibile a cause naturali, una malattia respiratoria. La ricostruzione processuale e le evidenze scientifiche però hanno contraddetto questa tesi: l’insieme dei deficit nutrizionali, delle fratture e delle lesioni dentali ha convinto la corte che il bambino fosse stato sistematicamente privato delle cure e dell’alimentazione necessarie per la sua età.
Il racconto della sorella: il sospetto partito dai social
La sorella di Naiyahmi, Cassie Rowe, ha fornito al processo e alla stampa un racconto intenso e doloroso: la prima avvisaglia che qualcosa non andava, ha detto, fu la scomparsa delle foto del bambino dai profili social della madre. Un progressivo allontanamento dalla famiglia originaria, seguito da contatti sporadici e da messaggi in cui Naiyahmi attribuiva i propri problemi di salute a questioni spirituali, aveva reso difficile intervenire. Cassie ha espresso rimorso per non essere riuscita a scongiurare la tragedia e ha raccontato di come, in passato, fosse stata coinvolta nel tentativo di aiutare la sorella.
Processo, condanna e domande aperte
La sentenza di dicembre 2024 ha cercato di tradurre in giustizia una vicenda che solleva interrogativi più ampi: come si può intervenire quando convinzioni estremiste o pratiche pseudoscientifiche si traducono in rischio per minori? Qual è il confine tra libertà di credo e dovere di tutela dei bambini? Per la famiglia e per gli investigatori la condanna rappresenta una risposta giudiziaria, ma lascia aperti il dolore dei parenti e una domanda di prevenzione che coinvolge servizi sociali, sanitari e comunità locali.
La vicenda di Abiyah è una ferita che riafferma l’urgenza di meccanismi di allerta efficaci e di una rete di protezione capace di intercettare segnali di rischio prima che la sottrazione di cure diventi irreversibile.