Emergono dettagli sempre più agghiaccianti sull’omicidio di Chamila Wijesuriya, la barista 50enne dell’hotel Berna di Milano, uccisa tra il 9 e l’11 maggio da Emanuele De Maria, detenuto ammesso al lavoro esterno nella struttura alberghiera. L’uomo, dopo aver assassinato la donna e tentato di uccidere un altro collega accoltellandolo, si è suicidato gettandosi dalle terrazze del Duomo.
Le ferite da taglio infliette post mortem per un rituale
Secondo i primi risultati dell’autopsia, eseguita il 16 maggio, la causa della morte sarebbe soffocamento per strangolamento a mani nude. Le ferite da taglio alla gola e ai polsi, inizialmente interpretate come possibili cause del decesso, sarebbero state inflitte post mortem, forse in un gesto rituale o simbolico. Il corpo della donna, ritrovato nel Parco Nord di Milano, presentava foglie infilate nella bocca, un dettaglio inquietante che alimenta l’ipotesi di un rituale macabro.
De Maria, 35 anni, era già stato condannato per un altro femminicidio nel 2016. In quell’occasione aveva ucciso la compagna, e proprio per quella condanna stava scontando una pena, pur essendo stato recentemente ammesso al regime di lavoro esterno. Gli inquirenti, coordinati dal pm Francesco De Tommasi, stanno ora cercando di capire come sia stato possibile concedere tale beneficio a un soggetto con precedenti di tale gravità.
Chamila viveva nella paura, le mancate segnalazioni
Un altro punto cruciale dell’inchiesta riguarda le sottovalutazioni nei rapporti trattamentali del detenuto. De Maria, infatti, avrebbe manifestato comportamenti possessivi e minacciosi nei confronti della vittima. Una collega ha testimoniato che Chamila viveva nella paura, convinta che potesse succederle qualcosa. Le sarebbero state rivolte minacce esplicite, richieste di denaro, e anche intimidazioni legate alla diffusione di video intimi. Tuttavia, sembra che questi episodi non fossero noti ai responsabili del carcere, né al datore di lavoro, che avrebbe avuto l’obbligo di comunicare eventuali segnali di rischio.
Ora si indaga a fondo per stabilire se vi siano state omissioni nelle relazioni di educatori, psicologi o funzionari del carcere che hanno valutato positivamente la possibilità di reinserimento di De Maria. Gli investigatori vogliono capire anche se le minacce fossero note ad altri colleghi o superiori e se sia mancato un protocollo di segnalazione che avrebbe potuto forse evitare la tragedia.
Controlli nel mirino
Nel frattempo, si attendono anche i risultati degli esami tossicologici, che potranno chiarire se l’aggressore fosse sotto effetto di sostanze stupefacenti al momento del delitto.
Il caso, drammatico e complesso, solleva interrogativi profondi sull’efficacia dei controlli nel sistema penitenziario e sulla gestione dei lavori esterni per detenuti pericolosi, specie se già autori di crimini di genere. La morte di Chamila rischia di non essere solo una tragedia personale, ma anche il simbolo di una falla sistemica nella sicurezza e nella prevenzione della recidiva.